sabato 9 maggio 2015
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Lingua italiana, attività formative e utili, lavoro civile In pochi giorni sono andati via in sedici; due hanno trovato impiego in supermercati romani, quattordici lavoreranno a Napoli in una ditta di vestiario. Tra questi ultimi ci sono anche elettricisti e muratori, ma faranno tutti i sarti: cucire abiti sembra il destino dei bengalesi, decretato dai grandi marchi internazionali. Trenta di quei marchi hanno fatto nuovi accordi, più equi, con le autorità del Bangla Desh. Ma produrre in Italia con operai bengalesi forse permette di saltare qualche mediazione. Così ho salutato Anwar, Kalachan, Jamal, Abu Hassan, Murad, Mafuz e tutti gli altri con il triplice abbraccio in uso al loro Paese e ho augurato loro «Good luck, Inshallah!». Mi hanno risposto: «Se Dio vuole!».  Qui, al Centro della Croce Rossa, ricevevano due euro e cinquanta al giorno come «pocket money». Consegnati ogni quindici giorni, hanno permesso – a partire da agosto dell’anno scorso – di mandare alle famiglie almeno 60 euro al mese: un respiro per i tre bambini di Anwar, i due di Noor Hossin, la bambina di quattro anni di Mafuz.  Riusciranno ora a guadagnare di più, visto che l’alloggio è offerto dalle ditte, ma cibo e vestiario sono a loro carico. Molti di loro hanno frequentato il mio corso di italiano (una lezione la settimana, quanto permesso dagli altri impegni), ma altri hanno preferito perfezionare il loro inglese, sui siti web gratuiti.  Nove di loro mi hanno aiutato a ristrutturare il nostro Museo Contadino; nel loro curricolo possono mettere anche la dichiarazione che hanno svolto questo lavoro volontario. Ma quale è il consuntivo della loro permanenza in questi luoghi? Le ombre sono molte. Non parlo dell’egregio lavoro dei volontari e dei responsabili della Croce Rossa. Parlo di un quadro generale insufficiente, che non considera le esigenze dell’ospitalità né assicura un ritorno per l’impegno economico che sostiene l’accoglienza.  Provo a dire che cosa manca.  Anzitutto l’insegnamento dell’italiano; deve essere quotidiano, obbligatorio e intensivo, in modo che in pochi mesi la nostra lingua sia padroneggiata come strumento di base. La diffusione della lingua italiana fa bene anche all’economia italiana.  In secondo luogo, nei primi sei mesi, devono esserci alcune ore giornaliere di formazione e/o di lavoro socialmente utile; a vent’anni o poco più, la prolungata inazione provoca un deterioramento delle qualità umane e un calo dell’autostima, oltre a veri e propri stati di depressione.  Utile – checché ne dica qualcuno – il segnale appena venuto dal ministro dell’Interno proprio su questo punto. Ma alle parole devono seguire i fatti: le istituzioni pubbliche, culturali e sociali devono essere messe in grado di prendere iniziative.  La terza misura deve entrare in campo quando, dopo il primo periodo di permanenza, i profughi ricevono il permesso di lavorare. La legislazione attuale permette solo a una ditta di dare lavoro, sia in agricoltura che negli altri settori, nel caso di lavori saltuari, le procedure attuali sono farraginose, al limite dell’applicabilità. Ma quella dei profughi è una situazione di emergenza. E se le autorità tollerano che si raccolga frutta e verdura pagando il lavoro un euro l’ora, perché non si autorizzano i privati – fino quando i profughi risiedono nei centri di accoglienza – a fare una piccola assicurazione per il lavoro negli orti, nei giardini, nella pulizia dei boschi e dei sentieri, con un compenso minimo registrato presso i Centri? Diamo anche la possibilità di “riscattare” ai fini pensionistici il lavoro fatto. Fissiamo un termine di validità a questo regime e monitoriamo i risultati.  Sono considerazioni e proposte razionali, che nascono dalla conoscenza e dall’affetto che mi lega ai profughi. Non penso siano sgradite a chi legge, ma soprattutto penso che siano buone per l’Italia.
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