venerdì 27 febbraio 2015
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Quella sagoma nera senza un volto, con un pugnale che luccica nella mano sinistra e accanto, in ginocchio, un prigioniero atterrito, era diventata per noi occidentali una sorta di spettro. Il simbolo di un terrore cieco e di una barbarica violenza. Il boia, peraltro, parlava un inglese perfetto, e anche questo ci smarriva: dunque, in quell’oscuro esercito militano uomini nati e cresciuti fra noi. E ora 'Jihadi John', il boia della decapitazione dei giornalisti americani James Foley e Steven Sotloff e di almeno altri quattro ostaggi, ha un nome, ha rivelato la Bbc. Mohamed Emwazi, 27 anni, cittadino britannico originario del Kuwait. Cresciuto a Londra, in un tranquillo quartiere che niente ha a che fare con le periferie degli emarginati, in una dignitosa casa di mattoni rossi, in una famiglia della classe media. Laureato in informatica alla Università di Westminster. Per il resto, poco è rimasto di lui nel suo quartiere: un ragazzo gentile, dicono, con un debole per i bei vestiti. Musulmano praticante, andava alla moschea di Greenwich, come migliaia di pacifici islamici londinesi. Fin qui il ritratto del boia della porta accanto. Fino ai vent’anni e oltre, un ragazzo così normale. Poi Emwazi si fa irrequieto: va in Tanzania, lo espellono, va a lavorare in Kuwait e vuole sposarsi, ma, rientrato a Londra, gli viene vietato l’espatrio. I servizi ormai lo tengono d’occhio. Non si sa come, poi, riesca a raggiungere la Siria.  Ma quest’ultima parte della storia è per noi meno misteriosa della prima, di quel 'prima' da studente londinese di informatica: la più nuova delle scienze, l’alfabeto del futuro. Uno studia per anni la tecnologia digitale, diventa un maestro della comunicazione virtuale, e poi lo ritroviamo come un unno: con un pugnale in mano, mentre si prepara a sgozzare un uomo inerme.  C’è un salto, fra la storia occidentale di 'Jihadi John' e quella violenza barbarica, che non riusciamo a comprendere. Che ci smarrisce, come un beffardo tornare indietro della storia; dove la scienza e la tecnologia compiono meraviglie, e gli uomini, invece, possono restare bestiali come millenni d’anni fa. Un poco, forse, ci conforta che il boia jihadista dall’ottimo accento londinese abbia ora un nome. Con un nome, un passato, una famiglia, è un po’ meno un fantasma. Tuttavia, indecrittabile e sbalorditivo ci resta il suo percorso: gli studi, i vestiti firmati, il metrò mattina e sera, e poi? Poi che succede, in questi ragazzi come gli altri? Potremmo capire un malvivente, e perfino forse un terrorista, ma ammutoliamo di fronte all’odio totale per il nostro mondo che quel boia in nero, cittadino britannico, rappresenta. Che virus è, quale pestilenza?  Ieri su 'Le Monde' un ex militante di un gruppo islamico armato raccontava la sua storia. Un ragazzo di provincia, la madre impiegata, il padre che non c’è, una vita noiosa. L’ex terrorista non spiega chiaramente la sua scelta, ma pronuncia una frase che colpisce. L’idea del 'martirio' islamico, racconta, a un certo punto comincia ad affascinarlo: gli succede, dice, di arrivare a desiderare di «dare un senso alla morte, piuttosto che alla vita». Affascinati dalla morte, dunque, una morte spettacolare, sfidata nella guerra, se non addirittura cercata e corteggiata? Riguardando i video delle decapitazioni si nota che, alle spalle di vittima e carnefice, c’è solo il deserto. Né vegetazione né villaggi né uomini, solo sassi e polvere, soltanto il nulla. Così come la maschera nera nasconde e rinnega ogni fattezza umana. L’adorazione del nulla. Cosicché, saputo il nome del boia dal perfetto accento British, ci resterebbe un desiderio: vederne la faccia. La guarderemmo a lungo, ostinatamente. Certi di trovare, alla fine, un tratto ancora quasi infantile, un segno di espressione, o uno spiraglio nello sguardo ostile: che ci dicano che sotto il cappuccio del boia, nascosto e censurato e negato, tuttavia c’è ancora un uomo. 
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