sabato 18 aprile 2015
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Gli scenari di cui si ragiona e i doveri dell’Europa. Restano solo due miliardi. Due miliardi di euro. Una somma colossale, vista da lontano, pochi spiccioli se pensiamo che servono a malapena a pagare gli stipendi e le pensioni del pubblico impiego ellenico per il mese di aprile. Dopodiché i soldi saranno terminati, la cassa sarà vuota e solo le entrate fiscali (che concorrono mediamente per 4 miliardi mensili) potranno tappare il buco delle spese correnti della Grecia. Nessuno sa però se dal gettito fiscale si riuscirà a racimolare quei 950 milioni di euro, tanto è il dovuto di Atene al Fondo Monetario Internazionale nel mese di maggio. Un quadro ormai usuale per la disastrata economia ellenica, aggravato dall’inesorabile downgrading inferto da Standard & Poor’s, che ha ulteriormente declassato il debito greco a CCC+ (come dire junk bonds, ovvero titoli spazzatura) mentre i titoli a due anni volavano al 27% di rendimento e quelli a 5 anni al 18%. Rendimenti cioè da default, da bancarotta. E nonostante il gelido ottimismo di prammatica, nessuno riesce seriamente a pensare che all’Eurogruppo di Riga del 24 aprile prossimo vi sia un accordo convincente fra il Gruppo di Bruxelles – farisaica concessione alla Grecia che ha soppresso il nome 'trojka' mantenendone le prerogative – e il Governo Tsipras. In altre parole, a meno di una dilazione sui pagamenti, Atene rischia davvero l’uscita dall’area dell’euro e un default da 330 miliardi che peserà sui bilanci di tutta Europa.  Preoccupati e un po’ accigliati, sull’altra sponda dell’Atlantico i grandi cerimonieri del meeting di primavera del Fondo Monetario e della Banca Mondiale fanno i conti del possibile default greco. Nessuno a parole lo vorrebbe, Mario Draghi in testa, ma poi si scopre, e un po’ è una sorpresa, che l’uscita della Grecia dall’area dell’euro non sarebbe più il terribile fantasma che si aggirava per l’Europa fino a pochi mesi fa, e che il Paese ellenico sia diventato piuttosto una sorta di parente povero un po’ molesto e un po’ patetico che bisogna soccorrere in qualche modo. Senza escludere un possibile ritorno alla dracma o addirittura un piano – «an Pleite Plänen ohne Euro-Aus» – per mantenere Atene nell’euro nonostante la bancarotta, come rivela il settimanale Die Zeit attribuendolo direttamente al Governo federale, cioè ad Angela Merkel.  Com’è avvenuta questa inversione di tendenza? Perché il collasso greco non fa più paura come un tempo? Per due ragioni. La prima è di ordine strutturale: temendo il contagio greco, l’Europa ha finito con il fabbricare da sé i propri anticorpi finanziari. In altre parole, il default ellenico a questo punto sarebbe tutto sommato sopportabile e gestibile con qualche scossone qua e là, ma senza grandi danni per l’economia di Eurolandia. La seconda ragione invece e tutta politica e sostanzialmente mostra l’altra faccia del rigorismo nordico: permettere alla Grecia – meglio: a una formazione radicale di sinistra come Syriza – di averla vinta viene giudicato più pericoloso di una bancarotta di Stato e politicamente più contagioso di qualsiasi tsunami che mercati si troverebbero ad affrontare.  L’importante – si dice a mezza bocca nei corridoi di Bruxelles e di Berlino – è che Tsipras e il suo pirotecnico ministro Varoufakis si rendano conto che i giochi di prestigio sono terminati e che nessun Putin e nessun Obama correrà davvero in soccorso di Atene. Siamo dunque giunti all’ultimo atto? Difficile crederlo. Alcuni indizi (e un po’ di ottimismo) ci inducono a pensare che a 'salvare' la Grecia e il suo popolo stremato da anni di tagli, di privazioni, di crescita mancata (e non nascondiamolo, anche dall’ottuso sadismo di quella parte matrigna dell’Europa che a lungo ha ostentato virtù e conti pubblici immacolati accanto a un’inquietante sordità morale) potrà essere proprio lei, la tanto vituperata FrauMerkel, in seria sintonia con chi davvero regge in questi mesi le sorti di Eurolandia, cioè Mario Draghi. Varrebbe più questo che cent’anni di puro rigore.
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