mercoledì 3 giugno 2015
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C’è un imperativo che viene dalla Nostra aetate, un «valore non negoziabile», anzi un «dovere», «dovere di ogni cristiano»: il dialogo. Nel caso particolare, insieme al dialogo ecumenico, si tratta di quello interreligioso, motivo essenziale e timone del viaggio apostolico che conduce sabato Francesco a Sarajevo ma che lo ha già portato in Terra Santa, in Asia, in Albania, in Turchia.  Nella dimensione dialogica del suo magistero ognuno di questi viaggi rappresenta una tappa lungo la strada tenacemente seguita da Francesco che fa del dialogo, che si concretizza con tutti, non solo con le diverse comunità cristiane e il mondo ebraico, ma anche con le altre religioni a cominciare dall’Islam, la chiave di volta per il perseguimento della giustizia e la costruzione di una pacifica convivenza fra i popoli. «Siamo convinti che per questa via passa la cooperazione per il bene comune e l’edificazione della pace del mondo» ha detto fin dai primi giorni di pontificato.  Già il 20 marzo 2013 nell’incontro con i rappresentanti delle diverse religioni esprimeva chiaramente l’indirizzo programmatico di assunzione prioritaria del dialogo interreligioso «nella volontà di crescere nella stima reciproca per favorire il bene dei poveri e la giustizia, per promuovere la riconciliazione... nella comune responsabilità che tutti portiamo verso questo nostro mondo, verso l’intero creato che dobbiamo amare e custodire». Nel viaggio in Albania il Papa aveva voluto mostrare come «la pacifica e fruttuosa convivenza tra persone e comunità appartenenti a religioni diverse è non solo auspicabile, ma concretamente possibile e praticabile». Nell’Evangelii gaudium (Eg) ha esplicitamente affermato che «il dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo e pertanto è un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose» riprendendo quasi alla lettera Benedetto XVI nel discorso del dicembre 2012 alla Curia romana. Se dunque il dialogo delle religioni si presenta come «il primo contributo diretto della Chiesa alla causa della pace», come pure conferma l’opera fruttuosa in corso della Santa Sede anche attraverso i canali diplomatici, si rende sempre più evidente l’esigenza vitale del dialogo interreligioso e dell’importanza di impegnarsi seriamente a favorirlo nell’educazione alla reciproca comprensione. Tanto più che «esso costituisce l’antidoto migliore contro ogni forma di fondamentalismo», come più volte si è fatto osservare denunciando tale fenomeno e constatando l’esistenza di atteggiamenti e pratiche anti-dialogali non solamente da parte degli altri ma anche dentro la Chiesa cattolica: ostacoli al dialogo «sono particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti» (Eg 250) come viene per la prima volta riconosciuto in un documento magisteriale. Tutto ciò significa puntare sulle religioni e permettere a esse di avere un impatto sulla realtà sociale e politica dei nostri tempi prendendo le distanze da «quanti esprimono grossolane e poco accademiche generalizzazioni quando parlano dei difetti delle religioni e molte volte non sono in grado di distinguere che non tutti credenti – né tutte le autorità religiose – sono uguali» (Eg 256).  Generalizzazioni troppo spesso condizionate anche da certe amplificazioni mediatiche che soggiacendo ad altri interessi, legati ai rapporti di potere esistenti, tendono a sminuire l’opera di dialogo lasciando credere che le differenze di credo sono incompatibili e che religione e violenza siano una cosa sola. Fomentando così la chiusura e l’inerzia mentale, la paura di cambiare e patologiche idiosincrasie, alimentano anziché la «cultura dell’incontro» la «cultura del disprezzo», secondo la denuncia formulata già negli anni Sessanta dall’intellettuale ebreo Jules Isaac e che fu all’origine della strada segnata dalla dichiarazione conciliare Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le altre religioni.  Già l’incipit del documento con le parole Nostra aetate rimanda in modo evidente al mondo contemporaneo e di conseguenza al testo conciliare che ha affrontato la questione della Chiesa nel mondo: la costituzione Gaudium et spes. Il riferimento alla contemporaneità è una chiave ermeneutica per la lettura di questo testo, di cui ricorre il cinquantesimo, nel quale l’incontro con le religioni e la prospettiva del dialogo sono istanze che s’inquadrano nei processi di interdipendenza caratterizzanti il mondo contemporaneo. È nell’esigenza di nuove relazioni tra le religioni che Giovanni XXIII e il Concilio hanno riproposto alla coscienza cristiana esortando a superare le frizioni del passato e difendere insieme la pace e la verità. I segni dei tempi sono perciò certamente da leggere come apertura al mondo, un aprirsi capace di stimolare una rinnovata autocoscienza ecclesiale perché è anche attraverso l’incontro e il dialogo con l’altro, religiosamente diverso da noi, che si può acquisire una matura coscienza della nostra identità religiosa ed ecclesiale.   Con il magistero contenuto nell’esortazione Evangelii gaudium Francesco ha operato in questa prospettiva un deciso «balzo in avanti»: «Fare il dialogo tra persone religiose di diverse appartenenze non riguarda solo la teologia: si parla di esperienza religiosa» nell’orizzonte dei rapporti quotidiani tra i credenti che sono chiamati al rispetto reciproco e alla conoscenza comune, come ha rilevato nella conferenza stampa sul volo di ritorno da Istanbul. L’Evangelii gaudium delinea perciò il dialogo interreligioso come processo di incontro umano e dà un accento particolare, familiare a ciò che nell’insegnamento ufficiale della Chiesa cattolica si chiama «dialogo di vita». Nel contesto del dialogo interreligioso e nella consapevolezza dell’esigenza, l’esortazione menziona espressamente con più forza, rispetto al documento di cinquant’anni fa, l’importanza delle relazioni dei cristiani con i credenti dell’Islam, orientando le sue riflessioni verso una proposta pratica. Proposta che si radica nel riconoscimento che «il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono a ogni violenza», senza dimenticare che essi, come i credenti dell’ebraismo, «professando la fede di Abramo adorano con noi un unico Dio misericordioso» (Eg 252).  Seppure i paragrafi che parlano espressamente dell’incontro islamo-cristiano sono pochi, tutta l’esortazione è un documento di dialogo: lo propone e lo pratica. Le dinamiche chiave sono la «comprensione» e l’«apertura», atteggiamenti fondamentali per il dialogo e dinamiche che permettono alla verità di manifestarsi nella carità (Eg 250). Il dialogo interreligioso ricava così dall’Evangelii gaudium tre nuove accentuazioni: un dialogo di apertura, di vita e di comprensione. L’apertura che richiede il coraggio di vedere Dio all’opera nella storia della salvezza, il dialogo di vita che è la condivisione, non solo degli spazi comuni e delle responsabilità, ma anche della nostra esperienza quotidiana. La comprensione dell’altro che significa anche esplicitare e assumere, come punto di riferimento per i coinvolgimenti, le «preoccupazioni» degli altri (Eg 253). Ancora più accorato, a Gerusalemme, il 26 maggio 2014, Francesco aveva fatto appello al secondo principio del dialogo: «Impariamo a comprendere il dolore dell’altro!». Perciò, seguendo il modello di Cristo, chiede ai cristiani la vicinanza a tutti, di condividere con loro la vita e di impegnarsi nella costruzione di una società più giusta e più fraterna, «vivendo questo non come peso che ci esaurisce ma come scelta personale che ci riempie di gioia e ci conferisce identità» (Eg 269). La Chiesa sente la responsabilità di edificare soprattutto una mentalità in questo senso, e quindi una società sul lungo periodo.   Nell’impegno comune per la pace, fa parte dell’apertura vissuta nella fede anche un impegnarsi gratuitamente. La via per manifestare l’atteggiamento di apertura per il dono della pace è infatti anche la preghiera nella condivisione e nella collaborazione fattiva con le altre confessioni. Il Papa ha messo in luce questo dinamismo dicendo che «la pace è un dono, un dono che si merita con il nostro lavoro, ma è un dono». La conseguenza di questo senso per la gratuità del risultato è «che insieme con la strada del negoziato – che è molto importante –, del dialogo – che molto è importante – c’è anche quella della preghiera», come ha affermato Francesco commentando l’incontro interreligioso di preghiera per la pace svoltosi l’8 giugno dello scorso anno in Vaticano. Nella conferenza stampa sul volo di ritorno dalla Corea egli aveva definito quell’incontro «non congiunturale», ma «passo fondamentale di atteggiamento» al quale diede un nome suggestivo: «Porta della preghiera». Se aprire questa porta è ammettere che i frutti di tale impegno sono regalati da Dio, non vedere questa porta aperta non indica la sua chiusura. Forse «il fumo delle bombe, delle guerre non lascia vedere la porta, ma la porta è rimasta aperta da quel momento». Questa porta per i cattolici non è perciò una pia illusione e non è un’opzione. Uniti al pastore della Chiesa universale, per primi abbiamo ciascuno il dovere di cercarla e di attraversarla con la pratica quotidiana nella condivisione aperta agli altri. O la pena è soggiacere alla pars destruens e all’ennesima Sarajevo.
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