Noi tutti, abitanti e custodi del creato
venerdì 2 settembre 2016
Il messaggio di papa Francesco per la celebrazione della Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato costituisce, più che una semplice ripresa, una sorta di esaltazione del ragionamento sviluppato nell’enciclica Laudato si’. Tale esaltazione è facilmente individuabile nell’invito a riconoscere e ad aggiungere alle tradizionali opere di misericordia corporali e spirituali una «nuova opera di misericordia» spirituale e corporale, quella relativa alla «cura della casa comune»; infatti «l’oggetto della misericordia è la vita umana stessa nella sua totalità». In che senso bisogna intendere una tale sorprendente affermazione? A ben vedere, nella sua enciclica il Papa non fa che leggere, interrogare e commentare il versetto biblico di Genesi (2,15) ove si afferma che «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, affinché lo coltivasse e custodisse». In queste parole bisogna saper riconoscere quella che a mio avviso è forse la definizione più rigorosa di "abitare": l’uomo in quanto uomo non semplicemente esiste o vive, ma in verità abita, ed egli abita proprio perché, nell’esistere e nel vivere, è con insistenza chiamato a coltivare-e-custodire. Nella sua lettura/commento Francesco non teme di collegare l’offesa recata alla natura a precise scelte di politica economica e a determinati interessi di parte. Così facendo egli ribadisce un punto fermo del pensiero della Chiesa: i problemi che affliggono la terra e la convivenza tra gli uomini non dipendono ultimamente da fattori esterni o a valle, come ad esempio l’aumento demografico o la scarsezza delle risorse alimentari, ma da ragioni interne o a monte, in particolare dall’ingiustizia sociale e dalla prepotenza di alcuni uomini, di alcuni gruppi di uomini, sulla maggioranza degli altri uomini. Nella difesa di questa tesi emerge con chiarezza il cuore, se così ci si può esprimere, di ogni atteggiamento autenticamente religioso nei confronti dell’esistenza: ogni uomo religioso, a qualsiasi religione egli aderisca, riconosce che la terra e più in generale la vita stessa non possono essere in alcun modo concepite come delle mere proprietà, come degli oggetti in mano ad un «soggetto supposto padrone» direbbe Lacan. Conviene a tutti non dimenticare ciò che è scritto nel libro del Levitico: «Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e inquilini» (Lv, 25, 23). Certo, questo non significa che l’uomo sia succubo della terra e della vita; egli, per l’appunto, è chiamato ad intervenire su di esse, è chiamato a prendere l’iniziativa e a «coltivare», ma in un certo senso deve compiere un simile gesto - ecco in che cosa consiste la cifra stessa dell’umano - da forestiero e da inquilino, cioè sapendo anche «custodire». «Noi non siamo Dio. La terra ci precede e ci è stata data» (Laudato si’, 67); insomma, ammesso e non concesso che ci sia un padrone, ammesso e non concesso che la logica del potere e del possesso sia sufficiente per leggere e interpretare il mistero dell’esistenza e della vita, questo padrone non può che essere Dio: l’uomo è un amministratore che riceve e che deve riconsegnare, tra l’altro e ancora una volta - è un tratto fondamentale del logos biblico – non tanto e non solo a Dio (in fondo Egli non ha bisogno di nulla: Dio, creando, ha donato la vita, non l’ha semplicemente prestata) quanto piuttosto agli altri uomini e soprattutto agli ultimi tra gli uomini. Ecco perché all’interno dell’enciclica la proprietà privata e il profitto non vengono condannati in quanto tali; essi non sono in sé qualcosa di malvagio, ma al tempo stesso si riconosce, con estremo realismo, come assai facilmente essi si trasformino in qualcosa di negativo, vale a dire in quell’idolo che, incantando/consumando il soggetto nel proprio godimento e distraendolo dalle esigenze degli altri uomini e degli altri viventi impedisce, prima ancora che la realizzazione della giustizia, persino la sua stessa ricerca. Avere insistito su un tale «intorpidimento» – che è un effetto sia del diffondersi del consumismo sia dell’imporsi del primato della tecnica – è uno dei meriti principali dell’enciclica di papa Francesco. «Nello stesso tempo, cresce un’ecologia superficiale o apparente che consolida un certo intorpidimento e una spensierata irresponsabilità. Come spesso accade in epoche di profonde crisi, che richiedono decisioni coraggiose, siamo tentati di pensare che quanto sta succedendo non è certo [...] Questo comportamento evasivo ci serve per mantenere i nostri stili di vita, di produzione e di consumo. È il modo in cui l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi: cercando di non vederli, lottando per non riconoscerli, rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse» (Laudato si’, 59).  Sia l’enciclica che il recente messaggio del Santo Padre ci aiutano così a non essere ingenui nell’affrontare il grande tema dell’abitare. Il coltivare-e-custodire, infatti, non deve essere interpretato, come talvolta accade all’interno di certe derive ecologistiche, solo in funzione dei fiumi e dei mari, degli alberi e degli animali. Il compito è più ampio e drammatico: dobbiamo coltivare-e-custodire anche gli affetti, il pensiero, le amicizie, la giustizia, la sensibilità, il tempo e lo spazio, la memoria e le tradizioni, le identità e le differenze, e in un certo senso persino i nostri stessi limiti. Ecco perché l’uomo è chiamato ad abitare, cioè a coltivare-e-custodire, l’intero «creato», e quest’ultimo non è mai riducibile al solo pianeta Terra e neppure alla sola Epoca in cui ci si trova a vivere. In estrema sintesi, è il «non-tutto »che ogni singolo uomo è a dover essere coltivato-e-custodito, cioè a dover essere abitato. All’interno del logos biblico questo significa che Dio chiama l’uomo alla verità del suo essere uomo, a differenza di Satana che invece lo invita, per sentirsi qualcuno, a diventare qualcun’altro, cioè a diventare Dio. Ultimamente, ciò che l’uomo è chiamato ad abitare è il suo stesso essere creatura: «L’oggetto della misericordia è la vita stessa nella sua totalità».
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