venerdì 29 luglio 2016
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Già nel dicembre dello scorso anno, The Times of India, annunciava che ben 70mila dotti musulmani avevano sottoscritto una fatwa (un responso giuridico) in cui il Daesh, al-Qaeda e i taleban venivano rigettati come «organizzazioni non islamiche». Simili dichiarazioni di condanna accompagnano quasi puntualmente atti di terrorismo della stessa matrice tanto da parte di enti di rilevanza internazionale quanto di associazioni di carattere più locale (come ha documentato Marsa Iannucci, in un recente libro: "Contro l’Isis. Le fatwa delle autorità religiose musulmane contro il califfato di al-Baghdadi"). Torna tuttavia a riproporsi spesso la richiesta di una presa di distanza corale, più ampia, più esplicita e maggiormente incisiva. Come si spiega una simile apparente contraddizione? Il grande orientalista Louis Gardet definì in uno dei suoi libri l’islam come «una teocrazia laica ed egualitaria» intendendo sottolineare il carattere anarcoide dell’indole beduina perpetuatosi in una religione senza clero né magistero unico. L’ossimoro però aiuta fino a un certo punto: da un lato del miliardo e mezzo di musulmani oggi presenti all’incirca nel mondo, solo circa il 20% sono d’origine araba, dall’altro il termine «teocrazia» pare inadeguato proprio per l’assenza di un’istituzione religiosa distinta e indipendente dagli Stati (quasi tutti dotati di un apposito ministero "degli affari religiosi"), per cui sarebbe forse tempo di mettere a tema il loro "cesaropapismo", anche in tante questioni interne alla fede islamica, oltre che nei suoi rapporti con altre religioni. L'instabile miscela d’interessi che inevitabilmente stanno dietro questa mancata distinzione di ruoli consente le più contraddittorie e talvolta finanche bizzarre interpretazioni delle fonti: non solamente il Corano, ma anche e soprattutto le migliaia di detti attribuiti a Maometto (la cosiddetta Sunna o Tradizione profetica), mai finora sottoposti al vaglio di un approccio storico-critico efficace ad armonizzarne le dissonanti disposizioni.  Per non parlare di testi neppure canonici, sebbene assai influenti, come le biografie di Maometto composte nell’epoca delle conquiste e dell’espansione islamica, in cui egli è presentato principalmente come un condottiero, mentre per ben 12 anni di predicazione (su 22 in totale) era stato il capo carismatico di una piccola comunità monoteista (un centinaio di fedeli) nella città di Mecca ancora prevalentemente pagana e a lui ostile, decidendosi solo dopo l’égira (migrazione) a Medina e non senza tentennamenti ad autorizzare e quindi guidare imprese belliche soprattutto difensive o reattive negli ultimi anni della sua vita. Decostruire l’immagine di un Testo sacro infallibile e da prendere sempre alla lettera, di un corpus normativo inalterabile e di un vittorioso profeta-armato non è stata la priorità neppure dei regimi nazionalisti o persino socialisteggianti che hanno prevalso nella prima metà del 900 nei paesi a maggioranza musulmana. La rassicurante pretesa di appartenere comunque a una comunità inevitabilmente migliore d’ogni altra aveva innegabili vantaggi, sul breve periodo. Quanto tale acritica autoreferenzialità potesse risultare distruttiva anche nelle dispute interne è emerso solo col tempo, complici le innumerevoli frustrazioni socio-politiche che si andavano accumulando specie di fronte alle nuove generazioni, ormai indifferenti rispetto ai meriti di una classe dirigente che si era opposta efficacemente al colonialismo, per poi degenerare in regimi corrotti e autoritari spesso spalleggiati da un Occidente altrettanto miope e attratto da vantaggi di corto respiro.  Ora una grande tradizione religiosa, strettamente imparentata a ebraismo e cristianesimo, non priva di capolavori di spiritualità ed etica plurisecolari, rischia di implodere per i nodi irrisolti che porta dentro di sé e per l’imponente conflitto d’interessi che segna le sue martoriate terre ormai da troppo tempo. Forse più che di dichiarazioni altisonanti da parte delle autorità musulmane bene o male riconosciute e, in particolare, ai musulmani che vivono fra noi, dovremmo da un lato chiedere e dall’altro offrire opportunità affinché un serio lavoro interpretativo della loro storia anche religiosa possa finalmente venire sbloccato, liberandolo dalla morsa in cui nei Paesi d’origine ha finito per spegnersi o addirittura per pervertirsi.
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