giovedì 4 giugno 2015
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Uno scoop a volte può costare il carcere a vita. È il rischio che sta correndo Can Dundar, direttore del quotidiano turco d’opposizione Cumhuriyet per il quale uno dei legali del presidente Recep Tayyp Erdogan ha chiesto un doppio ergastolo con l’accusa di spionaggio per aver commesso «crimini contro il governo della Turchia e per la diffusione di informazioni riguardanti la sicurezza nazionale». Qualche giorno fa, Dundar aveva pubblicato video e foto che mostrerebbero con scarso margine di dubbio l’invio da parte del governo turco di armi destinate a jihadisti in Siria a bordo di camion scortati dal Mit, ovvero dai servizi segreti di Ankara. Una vicenda spinosa e imbarazzante per il governo (anche perché si sospetta che le armi siano poi finite nelle mani dell’Is), soprattutto alla vigilia di elezioni politiche che si preannunciano rischiose per l’Akp, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo che per tre volte ha plebiscitariamente premiato Erdogan, ma che sta declinando palpabilmente nei consensi (si parla di un calo dal 52% a un 39-44%) e che sarebbe quindi costretto a trovarsi degli alleati per governare. In un Paese democratico lo scoop di Dundar può suscitare scalpore e anche il ricorso alla giustizia, ma la lotta politica, lo sappiamo, è fatta anche di colpi bassi. Restio a ogni confronto, Erdogan agita invece il fantasma di un complotto internazionale che farebbe capo all’ex alleato e adesso rivale Fethullah Gülen con la complicità – sono parole sue – di testate prestigiose come la Bbc, la Cnn e il New York Times. Ma questo è solo l’ultimo atto di una deriva politica e insieme personale del presidente. La satrapia di Erdogan, arroccato in una gigantesca quanto anacronistica reggia (un palazzo faraonico alle porte di Ankara in stile neo-ottomano dotato di 1.200 stanze fatto edificare su un terreno appartenuto al padre della patria Kemal Atatürk) si avvale di arresti di massa di giornalisti, magistrati, militari, membri del corpo di polizia, tutti appartenenti a suo dire a quello 'Stato parallelo' il cui scopo sarebbe di destabilizzare e frammentare l’unità del Paese. Nella memoria collettiva è ancor vivo il raid dell’antiterrorismo del dicembre scorso che portò all’arresto di decine di persone (l’ordine era di portare in carcere almeno 400 oppositori fra cui 150 giornalisti) per reprimere il dissenso interno. Gioverà ricordare anche l’oscuramento dei social network – da twitter a facebook – e l’incriminazione di chi ne faceva uso durante i giorni della protesta di Gezi Park e Piazza Taksim. Come si può dunque considerare la classe dirigente di questa Turchia gestita e governata come un redivivo sultanato – ma assai meno tollerante e libera di quanto non lo fossero certi sultani ottomani, che alle minoranze, alle differenti religioni e perfino alle idee politiche non ortodosse riconoscevano una qualche libertà – come un possibile partner dell’Unione Europea? Troppa è la distanza culturale, troppe le differenze, ma su tutto è la concezione di democrazia e di diritti dell’uomo che separa. Arrestare la stampa ostile, mettere ai ferri i magistrati scomodi, epurare l’esercito e la polizia non fanno parte dell’arsenale delle democrazie mature, bensì di quelle autoritarie. Anno dopo anno la Turchia di Erdogan finisce per assomigliare sempre più a quelle satrapie mediorientali – quella di Bashar al-Assad in testa – che afferma di voler combattere. Il problema, ne sono convinti tutti nelle grandi capitali occidentali, non è ovviamente la nazione turca in sé, ma il suo presidente e quella che il New York Times chiama «la sua linea distruttiva». E non è un caso che settori importanti dell’opinione pubblica turca abbiano cominciato a voltargli le spalle.
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