martedì 5 aprile 2016
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Il buon senso e un certo uso di mondo dovrebbero aiutarci a capire – proprio perché non ci s’intrappoli da soli nel più mesto dei moralismi – che la propensione a evadere il fisco, a portare tesori e tesoretti negli scrigni sicuri dei paradisi fiscali – lo scandalo dei Panama Papers appena deflagrato ne è una rutilante conferma – sia qualcosa di più di una tentazione per i potenti di tutto il mondo, ma anzi, quasi un sottaciuto e compiaciuto imperativo. Si chiamino Petro Poroshenko (il presidente ucraino che condannava la corruzione del suo predecessore) o Micaela Domecq (moglie del commissario europeo al Clima e all’Energia Miguel Arias Cañete), piuttosto che Ian Cameron (padre defunto del premier britannico David) o Eduardo Cunha (presidente della Camera dei deputati del Brasile e principale accusatore della presidente Dilma Rousseff, peraltro in buona compagnia), o ancora il siriano Bashar al-Assad, il deposto presidente egiziano Hosni Mubarak o il defunto Muhammar Gheddafi, per finire con il re del Marocco Mohamed VI o il saudita Salman (ma non scordiamoci il cerchio magico di Vladimir Putin, pesantemente indiziato per almeno due miliardi di dollari), questi signori sono tutti in qualche modo legati al mondo della politica e tutti – a quanto sembra – obbediscono a un precetto che dal "tacitismo" di Giusto Lipsio e dal pensiero di Machiavelli (che per lo meno conservavano una loro ossatura etica) è giunto fino a noi nella più disadorna e meno nobile delle versioni: quella di tutelare se stessi (non il proprio Paese) premunendosi di fronte ai rovesci della fortuna. Il che ha consentito al colosso mondiale dei revisori di bilancio PriceWaterhouseCoopers di ipotizzare tra i 21 mila e i 32 mila miliardi di dollari l’ammontare dei "tesoretti" conservati nei paradisi fiscali di tutto il mondo. E passi per star dello sport come Messi e Platini e del cinema come Pedro Almodovar: aprire e possedere una società o un conto corrente all’estero non è un reato fino a quando se ne esplicitano gli eventuali profitti. Il fatto è che l’accumulo di milioni a volte miliardi di dollari, euro, sterline o altre valute di pregio da parte di potenti e governanti sembra obbedire a una perversa scala inversamente proporzionale al tasso di libertà e di democrazia dei Paesi di provenienza. Come dire, più il satrapo è potente e intoccabile e più denaro accumula all’estero. Nemmeno Arafat e i fratelli Castro sono sfuggiti a questa logica. Denaro che molte volte era destinato alla faticosa crescita di un Paese in via di sviluppo e che puntualmente viene stornato a proprio beneficio. Non solo: oltre a puntigliosi capi di Stato e di partito, banchieri e grand commis internazionali le larghe braccia dei paradisi fiscali si aprono generose anche per criminali matricolati come i narcos messicani e colombiani e soprattutto per i trafficanti d’armi e per coloro che dello sfruttamento selvaggio delle risorse naturali dei Paesi poveri e della tratta degli esseri umani fanno il cuore del proprio business. Si dovrebbe provare una certa vergogna – non nascondiamocelo – ad avere come vicino di casella postale (le società off shore non abbisognano di alcuna sede, basta un indirizzo e un domicilio in una banca o in una finanziaria) un commerciante di bombe a grappolo o un sensale di gas nervini, o magari il più affermato trafficante di organi umani. Ma così evidentemente non è. Racconta Svetonio che l’imperatore Vespasiano impose una tassa sull’urina raccolta nelle latrine di Roma e che per sfidare i suoi detrattori recuperò da una di esse una moneta, annusando la quale dichiarò: 'Pecunia non olet', il denaro non ha odore. Siamo in grado di smentirlo: certo denaro, certi profitti, certi tesori bagnati di sangue e di sopraffazione hanno un lezzo che nessuna lavanderia, nemmeno la più remota e discreta potrebbero mai cancellare. E questo vale anche per tutti quei potenti che di giorno moraleggiano sulle virtù delle trasparenza e dell’equità, negoziando magari tempi e modi della battaglia globale anti-paradisi fiscali, e di notte contano – come il pubblicano cambiavalute nella Vocazione di S.Matteodel Caravaggio – la moneta per il cui sfavillio hanno perduto ogni luce.
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