mercoledì 21 settembre 2016
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In Siria le speranze di una tregua non sono durate che pochi giorni. Giusto il tempo di preparare i convogli umanitari che dovevano portare aiuto a una popolazione civile stremata da anni di barbara guerra civile, litigare su chi stesse violando la tregua e bombardare un convoglio delle Nazioni Unite che stava trasportando medicinali e beni di prima necessità. Alla lista infinita di morti vanno così aggiunti anche una ventina di operatori umanitari e rappresentanti della Croce Rossa (compreso un alto funzionario della Mezzaluna Rossa siriana), uccisi durante l’attacco a questa iniziativa umanitaria. Difficile trovare un atto più vile di questo: attaccare proditoriamente chi voleva consegnare aiuti ai civili e il cui passaggio era stato concordato e reso noto a tutte le parti in conflitto.Ma l’immagine dei camion 'UN' in fiamme fotografa con drammatica precisione la situazione in Siria: non ci sono limiti alla volontà di morte, e non ci sono regole. Si sta litigando – e si litigherà a lungo – sui responsabili del bombardamento. Ma la cosa preoccupante è che ogni accusa risulta credibile, perché ognuna delle tante forze in campo tende a dare il peggio di sé. Non sorprenderebbe se fossero state le forze di Damasco e i suoi alleati: Assad dimostra continuamente di essere un dittatore che non ha remore nel massacrare il suo stesso popolo. Ma potrebbe anche essere stato uno dei movimenti della galassia delle opposizioni, che spazia ambiguamente – e con continue contaminazioni – dai presunti oppositori moderati al regime ai gruppi qaedisti e del Daesh.La realtà è che i tanti dubbi all’indomani dell’accordo fra Stati Uniti e Russia sulla Siria erano ben motivati. Russia, Iran e Damasco cercano di sfruttare il momento militarmente favorevole per rafforzarsi ulteriormente, puntando sulla confusione della strategia statunitense e sul 'cambio' di politica regionale che la Turchia sembra voler adottare. La lotta contro i terroristi jihadisti di Daesh è strumentale a un rafforzamento contro tutte le opposizioni islamiste sunnite. Una politica certo cinica, ma in definitiva molto più chiara di quella occidentale, e di Washington in particolare.L’Amministrazione Obama appare ormai incapace di fare delle scelte chiare sulla Siria, intrappolata nell’ambiguità del sostegno alle diverse opposizioni. Vuole distruggere la presenza del Daesh in Iraq e Siria, ma non esce dalla contraddizione di come porsi con molti altri gruppi di opposizione contigui al jihadismo radicale. Il caso più evidente è quello di Jabhat al-Nusra, ribattezzata ora Jabhat Fatah al-Sham (Il Fronte per la Conquista del Levante).  Rinnegata al-Qaeda, cerca di proporsi quale interlocutore 'accettabile' agli occhi della comunità internazionale, sostenuta da diversi Paesi arabi. Quale sia la posizione degli Stati Uniti in proposito è davvero difficile da capire. Perché combatterla significherebbe indebolire ulteriormente le forze dell’Esercito Siriano Libero, ossia il raggruppamento sostenuto dall’Occidente e presentato come moderato, ma molto in difficoltà e sempre più ibridato dalle formazioni islamiste radicali. Appoggiarla richiederebbe una dose di cinica Realpolitik che Obama – almeno pubblicamente – non vuole dimostrare. E in ogni caso, mentre russi e iraniani sembrano controllare con sufficiente precisione le loro milizie e le loro pedine sul campo, nel fronte avverso sembra regnare la confusione più totale, con attori locali e regionali che sembrano riluttanti a ogni forma di coordinamento. Per dirla brutalmente: Obama chi controlla e a chi comanda nel Levante?Il risultato è, ancora una volta, la sospensione dei convogli umanitari e la ripresa di scontri pagati in prima persona dalla popolazione civile. Soprattutto ad Aleppo, ossia il principale snodo dei combattimenti. Vincere ad Aleppo significa per Damasco ottenere non solo un successo politico e simbolico, ma raggiungere un obiettivo strategico di primaria importanza, che causerebbe la frattura delle linee di rifornimento per i suoi oppositori e la loro frammentazione. Non stupisce allora che agli occhi dei combattenti siano irrilevanti le sofferenze e le morti fra la popolazione civile. Ma così non deve essere per noi: rassegnarci all’impossibilità di aiutare e rifornire i civili intrappolati sarebbe la sconfitta peggiore.
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