sabato 25 giugno 2016
 La lezione al continente tra orgoglio ed egoismo
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Al di là della reazione isterica delle Borse, ci sono certo mille buoni motivi per essere preoccupati del voto inglese. Che una delle più grandi e antiche democrazie europee decida di uscire dal progetto di unificazione è una sconfitta lacerante che pone interrogativi a cui nessuno sa oggi dare risposta: ci saranno altri Paesi che seguiranno la strada dal Regno Unito? Davvero l’Unione Europea rischia adesso di andare in pezzi? Quanto saranno gravi i prevedibili contraccolpi sulle economie mondiali? E le nostre già deboli democrazie reggeranno all’onda d’urto che dobbiamo aspettarci? Basta dare un occhio a ciò che stanno vomitando i social network nelle ultime ore: gli imprenditori del malessere hanno campo libero. Preoccupazione dunque. Che va però subito accompagnata da una lettura onesta e coraggiosa delle ragioni che ci hanno portato fin qui. Per fare questo occorre prima di tutto riconoscere che il referendum inglese è pur sempre un segno di democrazia. Il popolo (con un’ampia partecipazione) si è espresso. E va profondamente rispettato. La campagna è stata aspra ma chiara. E nessun elettore è andato a votare senza sapere quel che faceva. Un tale esito – ancor più urticante perché inaspettato, per l’errore dei sondaggi che avevano tranquillizzato tutti negli ultimi giorni – è dovuto a molte cause. Ma, nella sostanza, esso è conseguenza del fatto che larga parte del potere – non sono politico, ma anche finanziario, economico, mediatico e culturale – ha negli ultimi anni ripetutamente negato la realtà. E cioè che, a partire dal 2008, la sofferenza diffusa ha continuato a scavare nel cuore degli uomini e delle donne comuni, molti dei quali si sono sentiti ripetere discorsi rassicuranti circa l’imminente ripresa che nessuno, però, ha mai davvero visto. E non si tratta solo di economia. Ma della stessa possibilità di riconoscersi parte di un popolo accomunato da un progetto condiviso e istituzioni congruenti. In tale quadro, la questione dei migranti è diventata negli ultimi anni il fattore scatenante di una crisi che oggi non può più essere rimossa. In mancanza di una risposta politica seria e responsabile, proprio gli stranieri si sono di fatto trasformati nel capro espiatorio perfetto su cui il rancore di segmenti di opinione pubblica si è progressivamente canalizzato. Un processo aggravato e accelerato dall’escalation del terrorismo islamico, che non a caso è stato uno dei temi più sfruttati dalla campagna per il leave: possibile che, nonostante tutto quello che la cronaca ci racconta, in Europa non si sia ancora riusciti a impostare un discorso sensato per regolare i complessi rapporti tra islamici e cristiani, dentro e fuori l’Unione? È questa impressionante mancanza di lettura della realtà da parte delle élite che più deve preoccupare. Con il referendum, il popolo si è espresso. E anche se la vittoria dei fautori della Brexit copre importanti faglie interne – come la contrapposizione tra i più anziani (pro leave) e i più giovani (pro stay); o tra Londra (pro stay) e il resto del Inghilterra (pro leave); o tra l’Inghilterra e il Galles (pro leave) e il resto della Gran Bretagna (pro stay) – rimane il fatto che il risultato è netto. Con il vocabolario di Carl G Jung potremmo dire che, con questo voto, viene allo scoperto «l’ombra» dell’animo inglese: quella un po’ egoista e che pensa di potersi salvare da solo, a dispetto del mondo intero. E ciò è senz’altro vero. Ma nello stesso tempo, nel voto si può vedere l’orgoglio di un popolo che, consapevole della propria storia, aspira ancora a non farsi catturare dalla visione tecnocratica della vita che domina oggi un po’ dappertutto. Oltre che la legittima protesta dell’uomo qualunque che non riesce a far combaciare la propria esistenza con le grandi architetture messe in piedi dall’Unione Europea. Aver guardato con sufficienza – se non con disprezzo – questi sentimenti, certo limitati e ambivalenti, è stato l’errore della classe dirigente inglese ed europea. Ora la Brexit mette l’Europa continentale – e tutti noi – davanti a un bivio: o avanti o indietro. Cioè, procedere o abbandonare il progetto di unificazione. Prendere questa seconda strada sarebbe davvero follia. Ma prendere la prima richiede che si faccia ciò che in questi anni si è proclamato solo nei convegni o negli eventi celebrativi: è cioè che non ci può essere unità monetaria senza unità politica; che l’Europa non va pensata come un superstato burocratizzato, ma come forma politica innovativa capace di rendere possibile l’Europa dei popoli; che nessuna convergenza è sostenibile senza la condivisione di un 'mito politico' che, nel caso europeo, non può essere altro che quello della dignità di ogni persona umana; e che un tale mito non può essere mera retorica, ma deve tradursi in forme istituzionali e scelte politiche coerenti. Per meno di questo, come il voto in Inghilterra ci dice, non vale la pena stare insieme. L’uomo della strada lo ha capito. Prima che sia davvero troppo tardi, speriamo che lo capisca anche chi occupa i tanti luoghi di potere del nostro tempo.
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