venerdì 31 ottobre 2014
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Valutare il bene compiuto. Misurarlo. Fino a ricavarne un numero o un valore monetario. È la nuova frontiera del non profit. Si prenda ad esempio la cooperazione internazionale nei Paesi in via di sviluppo, o le associazioni che ricevono donazioni e contributi pubblici, o ancora i servizi delle pubbliche amministrazioni. Come sapere se le azioni intraprese producono un reale cambiamento? E se questo cambiamento rappresenta un beneficio reale per le persone o una determinata comunità? La richiesta di metriche e di dati quantitativi che misurino l’impatto sociale degli interventi nel Terzo settore si sta imponendo a livello internazionale e in Italia è al centro di un acceso dibattito. In Europa chi non sta al passo rischia di rimanere escluso: la Commissione europea ha fissato uno standard per misurare gli impatti di imprese a carattere sociale, che sarà determinante per accedere agli 86 milioni di euro stanziati dal 2014 al 2020 dal nuovo programma Employment and Social Innovation (EaSI) e agli European Social Entrepreneurship Funds (EuSEF), i fondi dedicati all’impresa sociale. La misurazione del valore sociale è «il tentativo di fornire una rappresentazione oggettiva del cambiamento», «sia esso l’inclusione sociale, la formazione professionale, l’assistenza sanitaria, la protezione e valorizzazione del patrimonio artistico, la rinascita territoriale» sintetizzano Clodia Vurro e Francesco Perrini in 'La valutazione degli impatti sociali' (Egea), una mappatura degli strumenti in campo, alcuni dei quali arrivano a calcolare con una formula il cambiamento prodotto da un progetto, un fondo o un’organizzazione. La 'metrica' che più di tutte sta entusiasmando una fetta di attori e finanziatori del Terzo settore in questo momento è lo Sroi (social return of investment), il calcolo del ritorno sociale dell’investimento. Si ispira al più conosciuto indice economico Roi.  Considera però non solo i risultati quantitativi di un’attività svolta (output) ma anche i benefici immateriali derivanti da quell’attività (outcome), definendo un indice che esprime il rapporto tra risorse investite e impatto ottenuto. Un esempio è stato fornito di recente da Centro Studi della Fondazione Lang, che ha calcolato lo Sroi su quattro anni di attività della Fondazione Piero e Lucille Corti, nata per sostenere l’ospedale Saint Mary Lacor in Uganda. L’analisi, finanziata da Fondazione Cariplo, ha considerato tutti gli effetti sul territorio ugandese riconducibili al Lacor Hospital dal 2010 al 2014. Lo 'Sroi ratio' è stato calcolato ponendo al numeratore il valore di output e outcome e al denominatore l’importo delle donazioni all’ospedale, tenendo conto di tutti gli attori coinvolti: l’investitore, gli studenti di medicina e la popolazione locale che vive e utilizza i servizi sanitari.  Oltre al numero di pazienti curati si sono quantificati benefici come l’aumento di livello di salute pubblica, l’indotto economico sul territorio, il miglioramento delle infrastrutture, la diffusione di cultura e know howa livello locale. Tutti i dati sono stati poi monetizzati, fino ad arrivare all’indice 2,74: in sostanza per ogni euro erogato dalla Fondazione Corti al Lacor Hospital nel 2014 sono stati generati 2,74 euro sul territorio ugandese. Ma a chi sono utili questi dati? «Ai donatori, che possono avere un’idea più precisa del valore prodotto dalla propria donazione – risponde Elisa Chiaf, direttrice del Centro di ricerca Socialis dell’Università degli Studi di Brescia – ma anche alle organizzazioni che realizzano gli interventi per migliorare l’efficacia delle proprie performance». Socialis ha applicato alle cooperative che si occupano di inserimento lavorativo di persone svantaggiate il metodo 'Valoris', che permette di misurare il risparmio che l’impresa sociale garantisce all’ente pubblico nel tempo. Ma il benessere di una persona o di una comunità si può misurare? Non c’è il rischio di appiattire ogni aspetto della vita sulla dimensione economica? E aspetti intangibili come la relazione creata con un paziente o lo stile di un servizio non rischiano di restare al di fuori, per definizione, da ogni calcolo? In Italia la misurazione dell’impatto sociale può contare su entusiasti sostenitori. Ma c’è anche chi ne evidenzia i limiti e gli aspetti problematici. Come il fatto che non esistano metriche condivise, ma una pluralità di indici. Se poi è vero che il valore sociale cambia nel tempo e a seconda dei luoghi, delle persone e delle situazioni, non si rischia che ogni misurazione sia frutto di un punto di vista parziale?  «È vero, c’è ancora una pluralità di indici, ma è normale – sostiene Mario Molteni, direttore dell’Alta scuola impresa e società (Altis) dell’Università Cattolica – in un’industria allo stato nascente prevale la varietà delle metodologie. È solo con l’accumulo di esperienze che si affinano le metriche e, per tentativi e aggregazioni, si arriva allo standard e all’affermarsi di un tipo di misurazione rispetto a un’altra». Altis è l’unico membro italiano dello Sroi network che ha appena lanciato 'Social Value International', la più grande rete internazionale sul valore sociale del mondo. Secondo Molteni «non esistono organizzazioni non misurabili, anche se può darsi ci siano attività meno misurabili di altre, ad esempio le relazioni di aiuto di tipo psicologico». D’altra parte, «in tutto il mondo si utilizzano da anni scale quantitative per tracciare anche elementi qualitativi, per esempio nel campo della disabilità». Il valore generato dal Terzo settore italiano, secondo gli ultimi dati Istat, è pari a 64 miliardi di euro. Il non profit dà lavoro a 680mila persone e continua a ricevere fiducia da parte dei cittadini donatori nonostante la crisi: secondo l’Istituto Italiano della Donazione, nel 2013 il 47% delle organizzazioni ha potuto contare sullo stesso volume di entrate dell’anno precedente, mentre il 27% le ha viste addirittura crescere.  Ma se in Gran Bretagna il 70% delle associazioni misura in modo regolare l’impatto delle proprie attività, in Italia è solo il 32% delle organizzazioni più innovative a farlo, ha rivelato una ricerca di Sodalitas e Irs. Nel 2013 il G7 ha istituito una Task force sul Social impact investment e in Italia sta operando un advisory board presieduto da Giovanna Melandri che ha tra i suoi obiettivi quello di stimolare la misurazione dell’impatto sociale. E la legge delega di riforma del Terzo settore approvata lo scorso luglio prevede la revisione dello statuto giuridico dell’impresa sociale, definita «impresa privata a finalità d’interesse generale avente come proprio obiettivo primario il raggiungimento di impatti sociali positivi misurabili». Le perplessità non mancano. «Non sono contro la valutazione, ma imporre come obiettivo primario alle non profit la misurazione è assurdo, finirebbe per essere solo un onere burocratico in più» afferma Carlo Borzaga, professore di Politica economica all’Università di Trento e presidente dell’Istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale (Euricse). «Oltretutto in Italia c’è stato un errore di interpretazione: a livello europeo sono i fondi a dover dimostrare che i contributi pubblici sono spesi con efficacia e quindi a sostenere i costi della misurazione dell’impatto sociale, non le non profit». Secondo Stefano Zamagni «l’impatto sociale si può valutare e chi sostiene il contrario lo fa per pigrizia, incapacità o per altri interessi.  Misurare è un dovere e chi non lo fa resterà indietro perché in ogni caso si andrà in questa direzione: lo chiedono la Commissione europea, il G8 e il governo italiano». Per l’economista, già presidente dell’Agenzia delle Onlus, «l’errore di molte organizzazioni è considerare la valutazione un giudizio, invece bisogna recuperarne il significato originario che è 'dare valore' al proprio operato. Il non profit dovrebbe farsi promotore della valutazione dell’impatto sociale in modo propositivo e diventare protagonista di un grande cambiamento culturale in questa direzione, senza subire come imposizione la richiesta di misurare il risultato dei propri interventi».
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