martedì 26 aprile 2016
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L’ansia e le paure sul tema immigrazione – quelle stesse che hanno portato alla vittoria un partito di estrema destra, almeno al primo turno delle presidenziali in Austria – sono assolutamente comprensibili in un Paese come l’Italia che viene da 7 anni di recessione, ma non necessariamente giustificate. E questo perché fondate su una serie di pregiudizi. Il primo e più importante è che gli stranieri «tolgono lavoro agli italiani». Secondo la visione che accompagna questo slogan, bisognerebbe, prima, occupare tutti i nostri disoccupati e, poi, nel caso, fare arrivare lavoratori dall’estero. In realtà, come abbiamo spiegato più volte, non sono certo gli stranieri che hanno tolto e tolgono lavoro agli italiani, ma semmai le politiche macroeconomiche sbagliate della Ue post-crisi finanziaria. Mentre la libera circolazione dei lavoratori è invece un pilastro fondamentale per lo sviluppo sostenibile nella globalizzazione. Il pregiudizio in questione si fonda sull’idea che l’economia sia un gioco a somma zero, ovvero che esista una torta già sfornata da dividere in fette. Se bisogna darne una fetta a chi arriva sui barconi ce ne sarà una in meno per noi. Le cose non stanno proprio così. La torta non è di dimensioni fisse, deve essere ancora prodotta e la presenza di lavoratori stranieri aiuta a costruire torte più grandi. Un bel lavoro di Gianmarco Ottaviani e Giovanni Peri lo dimostra da un punto di vista empirico evidenziando che la presenza di immigrati è complementare e non sostitutiva del lavoro autoctono ( http://www.nber.org/papers/w12497). Per questo motivo, laddove c’è più integrazione tra lavoratori nazionali e stranieri, la produttività è maggiore e i salari nazionali per lavoratori con almeno un titolo di studio superiore crescono. Se ci riflettiamo bene, noi ragioniamo intuitivamente come se dessimo per scontato il risultato di questa ricerca anche se spesso non ce ne accorgiamo. Per capire meglio il punto facciamo un esempio. Consideriamo il caso di una famiglia con un anziano purtroppo non autosufficiente che ha bisogno di una badante, oppure alla ricerca di una domestica. Pensiamo forse che i soggetti in questione mettano un annuncio sul giornale del tipo 'cercasi badante (domestica) italiana, meglio se romana ?'. Nessuno limiterebbe la ricerca a candidati della propria nazionalità o della propria città. L’economia funziona meglio se per ciascun posto di lavoro cerchiamo il candidato migliore e lo troviamo il prima possibile. Per raggiungere entrambi gli obiettivi mettere un limite di nazionalità è un vincolo che riduce le possibilità di successo. L’altro tipico pregiudizio molto comune è che un afflusso di stranieri molto più ordinato sembra di gran lunga preferibile e più efficiente. Bene quegli stranieri che vediamo già integrati nel nostro Paese, che mandano avanti le nostre aziende ma no alle folle di 'disperati' che arrivano sui barconi. Abbiamo pertanto in testa un mondo ideale dove si fa prima un censimento della domanda di lavoro e di professioni da noi, si inviano i desiderata alle ambasciate, si fa la formazione nei Paesi d’origine e poi si dà il permesso ai lavoratori formati per arrivare in Italia. Un’impresa che seguisse questo interminabile (e più di un verso auspicabile) iter si perderebbe purtroppo nei meandri delle burocrazie e andrebbe fallita prima di realizzare il proprio proposito. Il mondo non funziona così. È molto più disordinato e creativo. E non ci rendiamo conto che la grandissima maggioranza degli immigrati 'presentabili' e regolarizzati che distinguiamo decisamente da coloro che arrivano sui barconi sono arrivati nel nostro Paese su quei barconi e se non ci fossero riusciti non sarebbero mai diventati spina dorsale della vita produttiva del nostro Paese. L’ultimo pregiudizio è l’effetto ottico generato dai colli di bottiglia dei punti di arrivo degli stranieri. Gli sbarchi sulle coste, le imbarcazioni piene di migranti, punti d’approdo superaffollati come Lampedusa o Lesbo tendono a veicolare l’idea dell’invasione. È come se giudicassimo la densità di popolazione di una città dalla folla di passeggeri all’aeroporto in un giorno di punta, passeggeri che poi si distribuiscono all’interno di un vastissimo territorio. In realtà il problema sono proprio i tappi, i colli di bottiglia e i muri che creano molti più problemi di quelli che vorrebbero risolvere. Tutti questi pregiudizi rendono difficile valutare con serenità i dati di realtà. Come quelli che ci dicono che nel 2015 abbiamo perso circa 140mila italiani (come saldo negativo tra morti e nati) sostituiti da non più di 40mila immigrati. Che la differenza tra contributi versati e contributi percepiti dagli stranieri crea nelle casse dell’Inps un saldo di quasi 5 miliardi di euro pagando di fatto le pensioni di circa 600mila italiani. Che pezzi molto importanti del nostro apparato produttivo (dai distretti di Prato, alla cantieristica di Monfalcone alle filiere agricole della Puglia e della Sicilia) hanno resistito alla delocalizzazione grazie all’importazione di manodopera straniera. Che interi paesi e campagne non sono morti grazie al ripopolamento di artigiani e pastori stranieri. In questi casi senza l’apporto degli stranieri la torta prodotta nel nostro Paese sarebbe proprio sparita. Pensiamo spesso che morale ed economia viaggino su binari diversi. Che la morale ci dice che una persona che fugge dalla morte e dalla disperazione va aiutata ed accolta, ma purtroppo le leggi dell’economia sono altre. In realtà non è affatto così e la fertilità umana ed economica seguono leggi simili. Dono, fraternità, cooperazione, fiducia, e accettazione intelligente (e attiva) di un livello di disordine creativo superiore a quello che vorremmo (assieme a una buona macroeconomia) sono in realtà il segreto della prosperità umana ed economica.

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