sabato 23 aprile 2016
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In fondo ci siamo abituati: quasi fosse un congegno a orologeria, il veto tedesco scatta inesorabile di fronte a ogni minima diffrazione di spesa a livello europeo, foss’anche la più blanda delle proposte, in ossequio a quel rigore nei conti pubblici vissuto con ardore quasi religioso, con punte che sfiorano a volte il fanatismo. Scambiandosi di volta in volta le parti, la signora cancelliere Merkel, il suo ministro delle Finanze Schaeuble, il presidente della Bundesbank Weidmann sembrano recitare a soggetto con un unico scopo: quello di proteggere la Germania e i suoi vassalli virtuosi (l’Olanda, i Paesi baltici, gli scandinavi) dall’assalto del "Pigs", i meno virtuosi Stati meridionali d’Europa che Berlino guarda con rancoroso sospetto, quasi attentassero alla fortuna e al meritato successo della patria di Kant e di Beethoven. È di due giorni fa l’ultimo scontro al vertice fra la Germania e la Bce. Una rampogna dura, impossibile da medicare con parole di circostanza, nella quale Berlino critica senza mezzi termini l’operato della Banca centrale europea – e di fatto del suo presidente, Mario Draghi – responsabile secondo Schaeuble di essere «fautore di una politica monetaria che penalizza fortemente la Germania». Ma per taluni il presidente della Bce sarebbe addirittura responsabile del successo elettorale di formazioni euroscettiche e xenofobe come Alternative für Deutschland. Imbarazzante. Non meno del sospetto che in simili rampogne si nasconda un sonante "conflitto di interessi" che non giova né alla Germania né all’Europa, contribuendo, questo sì, ad allontanarne i cittadini. Perché le leadership reali si esercitano non in conflitto d’interesse o per piccoli interessi, ma in vista di un bene comune più grande. Le polemiche della Germania contro Draghi, le manovre sulle banche, il no agli eurobond a sostegno del piano italiano per smontare la macchina delle migrazioni per disperazione aumentano i sospetti sulla volontà della Germania di prevalere (prevaricare?) in Europa e finiscono per indebolire la struttura stessa dell’edificio europeo. Ecco, al di là delle nitida replica di Draghi («Lavoriamo per la stabilità dell’Eurozona, la Bce obbedisce alla legge, non ai politici, proprio perché siamo indipendenti») sta qui il busillis, quel nodo gorgiano che Frau Merkel è da sempre riluttante a tagliare. Il nodo è la leadership della Germania in Europa. Da sempre, dall’epoca della miracolosa ricostruzione postbellica, ne è la locomotiva economica e dalla riunificazione in poi ha assunto anche il profilo adatto per guidarla, a compimento di quel disegno iniziato nei lontani anni Cinquanta con i Trattati di Roma. Nessuno – forse nemmeno i francesi che hanno via via smarrito ogni grandeur – mette in dubbio la leadership tedesca. Né si potrebbe pensare a una leadership alternativa, non abbondando l’Unione Europea di oggi di figure all’altezza di un simile compito, ma anzi, a giudicare da certe miopi e disdicevoli chiusure (e non stiamo parlando della sola questione migranti, impostata in modo concreto e propositivo da Matteo Renzi), in predicato di esibire una delle classi dirigenti meno illuminate dall’epoca della sua istituzione. Ci sarebbe, per l’appunto, Angela Merkel. Ha il prestigio, la competenza, l’autorevolezza per essere la timoniera della nazione-cuore d’Europa e insieme la guida anche politica dell’Unione. Ma la signora cancelliere è stretto nell’abbraccio mortale dei suoi avversari che l’attendono al varco (nel primo semestre del prossimo anno ci saranno elezioni in tre Länder e nell’autunno le politiche e le previsioni sono non esattamente rosee per la Cdu), della BdI (la Confindustria tedesca) e perfino di alcuni suoi ministri, il Finanzminister Schaeuble in testa a tutti. I falchi, le colombe. La dialettica fra Stati e membri e Bce. Tutti ingredienti indispensabili per il buon funzionamento di una democrazia. Criticare la Bce, sia chiaro, non è certo un reato di lesa maestà, ma privilegiare in maniera assidua solo l’interesse particulare di una nazione – soprattutto se questa nazione è la Germania – va nell’opposta direzione per un Paese che potrebbe (e secondo molti dovrebbe) essere il motore riconosciuto ed efficace dell’Unione Europea. Ma la Germania sembra avere una speciale vocazione nel ritrarsi di fronte alle proprie responsabilità. Come diceva Goethe, «i tedeschi sanno correggere, non aiutare». Vero e proprio Giano bifronte, il più ricco e industrioso dei Paesi dell’Unione è parimenti capace di distogliere lo sguardo di fronte al dramma del debito, al rischio del default e in definitiva a fronte di quell’urgenza di solidarietà, cioè di sviluppo solidale, che rimane (o dovrebbe rimanere) uno dei pilastri su cui fonda l’originale idea di Europa. Ci si domanda spesso quanto la Germania sia rimasta europea e quanto l’Europa sia diventata tedesca. Una risposta forse non c’è, nonostante i molti indizi: l’innegabile egemonia muscolare che da sempre esercita sul continente e la mai sopita Sonderweg( la 'via speciale' di bismarckiana memoria). Ma probabilmente per certa classe dirigente tedesca è molto più utile nascondersi dietro il paravento di Bruxelles. Che in definitiva non è altro che una comoda scorciatoia per continuare a tutelare senza troppa fatica i propri interessi. Ridateci la Germania di Adenauer, di Brandt, di Schmidt e di Kohl.
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