giovedì 15 gennaio 2015
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La battuta circolava in rete già da un paio di giorni, ma ieri è tornata di attualità: abbiamo marciato per la libertà di espressione e l’incriminazione di Dieudonné è il primo risultato. Da un lato c’è il ritorno in edicola di “Charlie Hebdo”, il settimanale satirico francese decimato dalla strage terrorista della scorsa settimana. Un paradossale Maometto in copertina e battute irriverenti a volontà per tre milioni di copie subito esaurite in patria, senza contare le 260mila diffuse in Italia da un quotidiano che, a fronte della richiesta (e per evitare speculazioni, come quelle che si affacciavano ieri in alcuni siti di e-commerce), ripeterà l’operazione oggi. Questo è il fronte della laicità a oltranza, senza se e senza ma, nel cui nome hanno sfilato domenica a Parigi i grandi della Terra e i cittadini semplici, i parenti delle vittime e i colleghi giornalisti.  Sull’altro versante, però, c’è lui, l’impresentabile comico di origine camerunense Dieudonné M’bala M’bala, uno che trova divertente la Shoah (o, meglio, il cinismo con cui lui stesso affronta la Shoah) e che, nel pieno del lutto, ha pensato bene di proclamare “Je suis Charlie Coulibaly”, mescolando il nome che sta sulla testata del giornale vittima con il cognome di uno dei carnefici. Inopportuno? Certo. Rivoltante? Sì, anche rivoltante. Il punto è che in seguito a questa uscita Dieudonné è stato prima incriminato e poi formalmente messo in stato di fermo sotto l’accusa, gravissima, di “apologia di terrorismo”. Non si è limitato a esprimere un’opinione, ha spiegato il premier francese Manuel Valls, ma ha commesso un reato. In punto di diritto, il ragionamento non fa una piega. La legge francese non persegue la blasfemia, però ha regole molto chiare per quanto riguarda l’incitamento all’odio e alla violenza, oltre che per la discriminazione su base etnica o di orientamento sessuale. Nel momento in cui invoca il diritto a una libertà senza limite, la laicità un limite lo traccia. Condivisibile, sia chiaro. Ma a sua discrezione. E il limite, in fondo, è il primo segnale che rinvia all’esperienza del sacro: il primo indizio che l’umanità, da sola, non basta mai a se stessa.
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