sabato 9 luglio 2016
Disarmare la diffidenza
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La tragedia di Dallas, che segue le uccisioni di neri da parte di poliziotti bianchi, riapre ferite americane mai veramente rimarginatela. E che hanno una lunga storia. Il diritto dei cittadini a portare le armi è sancito dal Secondo emendamento della Costituzione ed è motivato dalla diffidenza nei confronti del "governo", così tipica della componente libertaria all’origine degli Stati Uniti d’America La dichiarazione d’indipendenza, come si ricorderà, costituì l’ultimo, doloroso, passo della lotta degli abitanti delle tredici colonie contro una Corona che si ostinava a privarli dei loro legittimi diritti posseduti in quanto sudditi britannici.

Tale diffidenza si ritrova nel sentimento di ostilità nei confronti del >big government, così diffusa nella cultura politica americana. Che contro un governo tirannico il popolo debba essere in grado di insorgere anche con le armi, esattamente come accadde nel 1776, è perciò inscritto nel Dna della pur virtuosa tradizione politica americana. Grazie a una sua interpretazione estremamente estensiva, il controverso emendamento, consente, che qualunque persona, anche a prescindere dai suoi precedenti penali, possa dotarsi di un vero arsenale. Chiunque abbia provato a proporre una limitazione della vendita e del possesso di armi da guerra ha argomentato sull’inattualità di quell’emendamento, sostenendo a buon titolo che il governo federale non possiede alcuno dei caratteri tipici di un sistema tirannico. A queste richieste, dettate dal buon senso, la Corte Suprema ha sostanzialmente opposto il principio secondo cui lo potrebbe sempre diventare, considerando che neppure la Corona britannica era pensabile come una tirannia, prima che iniziasse a comportarsi come tale.

D’altra parte, non dovrebbe essere mai dimenticato che anche l’altro spartiacque della storia americana, il tentativo di secessione degli Stati schiavisti del Sud che portò alla Guerra civile, venne presentato come il diritto a lottare, anche con le armi, contro l’intrusione del governo federale nella libertà della comunità. È l’altra faccia della stessa medaglia, potremmo dire. Quello che però qui interessa mettere in evidenza è che, come avvenne in occasione del più sanguinoso conflitto mai combattuto dagli Stati Uniti (la Guerra civile, appunto), danni enormi possono prodursi nel corpo sociale quando un diritto rivendicato nel nome della libertà si basa su un’idea non condivisa della libertà stessa. In quel caso, ciò che spaccava la società americana era la contrapposizione tra la visione abolizionista, che considerava la schiavitù dei neri uno sfregio alla libertà, e quella di una cultura apertamente razzista, che invece la giustificava proprio nel nome della libertà (dei bianchi). Per venire ai giorni nostri, ciò che preoccupa gli osservatori meno superficiali, a partire dal presidente Obama, è il riproporsi della questione razziale (mai completamente superata, neppure a 60 anni dalla fine del segregazionismo e a quasi 120 dalla conclusione della Guerra civile) all’interno di una società pesantemente armata. Il timore, per intenderci, è quello della riproposizione di una nuova edizione della guerra civile, in una sua versione questa volta "privatizzata", in cui i singoli cittadini e persino i singoli tutori dell’ordine, applicano una propria visione segregata della società e si muovono di conseguenza: sparando ai neri, perché la loro vita non è abbastanza "sacra", o ammazzando poliziotti, come legittima misura di rappresaglia nell’ambito di una guerra.

L’elezione di un nero alla presidenza degli Stati Uniti, per la prima volta nella storia, avrebbe dovuto essere un simbolo e uno stimolo del superamento della divisione razziale. E in parte sicuramente lo è stato. Allo stesso tempo però, proprio la presidenza di un nero ha esasperato quella cultura razzista che, normalmente, si "accontenta" della segregazione (sia pure non più sancita dalla legge), ma che di fronte "all’assedio da parte degli afroamericani" si sente in diritto di reagire anche con le armi. Vedremo come la questione prenderà forma nella campagna elettorale che contrappone Donald Trump e Hillary Clinton. L’unica cosa di cui possiamo essere certi è che i rispettivi strateghi staranno già studiando come sfruttarla a proprio vantaggio. La sola vera nota di speranza sta nella nuova e diversa accoglienza che le insistenti parole di papa Francesco sulle armi stanno ricevendo su tale delicata questione, contribuendo ad aprire un dibattito che lentamente ma finalmente accetti di riconsiderare l’attualità di una libertà antica che rischia sempre più di trasformarsi in una contemporanea licenza di uccidere.

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