venerdì 3 febbraio 2017
La riedizione di un libro di 43 anni fa con foto di emigrati europei e un reportage sulle attuali genti dei barconi: immagini identiche
Migranti arrivati via Serbia a Röszke in Ungheria nel settembre 2015 (Giulio Piscitelli)

Migranti arrivati via Serbia a Röszke in Ungheria nel settembre 2015 (Giulio Piscitelli)

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La storia si ripete. Ma sembra non insegnare nulla. Il flusso migratorio è uno di quei fenomeni che nella linea del tempo non si è mai fermato. Non si può fermare. E che, in epoche diverse, ha riguardato e riguarda tutti. Come si può arginare il desiderio dell’uomo di avere un futuro migliore altrove? Come si fa a bloccare la fuga di chi scappa dalla fame, dalla guerra, dalla cattiveria di bande armate, senza timore di lasciarsi tutto alle spalle e sfidare comunque la morte? La storia è un continuo movimento. Desiderato o tristemente imposto. Voluto o necessario. La storia dell’Europa è storia d’emigrazione nei due dopoguerra, ma anche negli anni Settanta (come non ricordare le navi cariche di albanesi sulle coste pugliesi solo 25 anni fa?). La storia dell’America è la storia dei popoli che ha accolto.


La storia italiana è quella di milioni di nostri nonni e padri che hanno varcato le frontiere e gli Oceani, per garantire un futuro a sé e in qualche modo per il nostro Paese. Una diaspora sempre attuale, se consideriamo i centomila ragazzi e lavoratori che ogni anno, oggi, lasciano l’Italia per superare la crisi: viaggi diversi dai barconi della speranza, certo, ma ispirati dallo stesso desiderio. A darci l’occasione di riflettere sulle migrazioni sono due libri editi da Contrasto, che pur non essendo nati in coppia, si parlano e ci riportano all’essenza dell’uomo, alla sua umanità. Senza giudizio. Solo fotografando la storia. Harraga (a cura di Giulia Tornari e con le mappe di Philippe Rekacewicz, pp. 182, euro 39) è il libro del fotografo napoletano Giulio Piscitelli, che raccoglie i suoi scatti sulle rotte del Mediterraneo dei migranti. Piscitelli ha attraversato il deserto con i profughi del Corno d’Africa; è salito su un barcone in Tunisia e ha sfidato il Mediterraneo con loro. Ha seguito i profughi siriani, iracheni, afghani diretti sulle isole greche; si è fermato nei campi di Calais e nell’enclave spagnola di Melilla.



Harraga è un termine dialettale arabo che vuol dire «quelli che bruciano le frontiere». Viene usato soprattutto in Algeria, Tunisia, Marocco. Ma potrebbero usarlo tutti quelli che provano a bruciare le frontiere. Che siano siriani o messicani. Italiani, portoghesi o turchi che negli anni Settanta nella “civilissima” Europa provavano anche loro a «bruciare le frontiere». A restituirci la memoria è la nuova edizione di una testimonianza del 1975 di John Berger (scrittore scomparso un mese fa) e del fotografo Jean Mohr: Il settimo uomo: titolo ispirato a una poesia dell’ungherese Attila József (19051937) che descriveva il dramma umano del suo popolo. E da un dato: in Germania e in Gran Bretagna un lavoratore su 7 era immigrato. In Francia, Svizzera e Belgio era straniero addirittura un quarto della forza lavoro industriale. Dati che non sono forse così lontani da quelli di oggi. Ma gli stranieri non erano “altri”, erano europei, eravamo noi. La fuga partiva dall’Italia, dal Portogallo, dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Turchia, dal blocco sovietico. Il racconto umano e vibrante, come un album di famiglia, di Berger è di un’attualità disarmante. Le foto che lo accompagnano sembrano scattate adesso. Cambiano le facce, cambiano i popoli, ma le scene sono identiche.



«Questo libro, scritto 43 anni fa, oggi è forse più significativo. In qualche modo si è rivelato profetico – ha sottolineato Berger nella prefazione –. I migranti continuano a cercare scampo dalla povertà». Il lavoro del giovane Piscitelli (che dal 24 febbraio al 26 marzo sarà in mostra al Forma Meravigli di Milano) in qualche modo ne raccoglie il testimone. «Dietro la parola harraga, si cela la grande ferita del mondo contemporaneo. Si brucia, si consuma ciò che si sogna ardentemente. Si bruciano e si sognano le frontiere, e mai come oggi le frontiere vengono continuamente ridefinite. Mutano con il repentino mutare della Storia. Mutano con il mutare dei viaggi, di ciò che li sospinge, e di ciò che li arresta, deviandoli verso nuove rotte», scrive nell’introduzione Alessandro Leogrande, giornalista, per dieci anni vicedirettore del mensile Lo straniero. «Le frontiere – aggiunge – non sono solo un sismografo della capacità dei paesi europei di accogliere chi si mette in marcia. Sono anche un termometro di ciò che avviene al di là dei confini dell’Europa e che spesso non siamo in grado di decifrare. La vera debolezza dell’Ue non è tanto nel non riuscire ad accogliere centinaia di migliaia di profughi o nel non riuscire a evitare le morti in mare. Ciò su cui l’Ue si dimostra debole è la scarsa capacità di aprire una riflessione sulle cause degli esodi di massa ». Di leggere la Storia.

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