venerdì 22 novembre 2013
​L'arcivescovo di Manila: «È stata impressionante la mobilitazione della Chiesa. Anche i sacerdoti hanno subito perdite ingenti, sono guaritori feriti». E dal porporato arriva un appello: «Prego i media di non dimenticarsi di noi nella lunga fase della ricostruzione». (Andrea Galli)
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«Gente di Pasqua» si intitola il suo libro pubblicato in italiano dalle edizioni Emi. Ma quella che il cardinale Luis Antonio Gokim Tagle, arcivescovo di Manila, porta in Italia in questi giorni è la voce di gente che dal 7 novembre sta vivendo sul Calvario, da quando le Filippine sono state colpite dal tifone Haiyan, il più potente registrato nella storia del Paese.Eminenza, continua a esserci una certa confusione nei media sull’entità del disastro. Qual è la reale situazione nell’isola di Leyte, la più colpita, e le altre isole nelle vicinanze?La confusione è abbastanza normale perché le linee di comunicazione sono state interrotte dal tifone e solo dopo cinque giorni abbiamo iniziato ad avere maggiori dettagli. Il danno è molto più esteso di quanto pensassimo. Le grandi città di Tacloban e Palo sono state pesantemente danneggiate. Ora sappiamo che la città di Guiuan e la provincia di Samar orientale sono state distrutte, così come parti delle province di Cebu e Iloilo, e poi quelle di Capiz, Aklan, Masbate e le isole a nord della provincia di Palawan. Ma il quadro preciso delle conseguenze di questa calamità è ancora in via di definizione.Quali sono i bisogni più urgenti della popolazione?Per salvare vite abbiamo bisogno di beni di prima necessità: cibo, acqua, medicine, ripari per i senzatetto. Abbiamo anche bisogno di rimettere in sesto aeroporti e strade, così da poter inviare i soccorsi nei villaggi più sperduti. Servono poi ospedali da campo per i malati e i feriti. Dobbiamo quindi finire di seppellire i morti. Abbiamo bisogno di persone che consolino gli orfani, le vedove e tutti quelli che hanno perso la famiglia o le proprietà. Abbiamo bisogno di molta speranza e molto amore.Cosa vorrebbe chiedere alla comunità internazionale e in particolare all’Italia?La comunità internazionale con le Chiese di tutto il mondo ci sta offrendo un aiuto economico, ma ci vengono inviate anche derrate alimentari e medicine, insieme alle preghiere e a parole consolanti di solidarietà. Apprezziamo davvero ogni atto di bontà. Facciamo appello a tutti a considerare anche il problema che si aprirà tra poco, quello della ricostruzione materiale e della riabilitazione di tante esistenze. Quello che mi sento di chiedere alla comunità internazionale è di non dimenticarsi di questo ulteriore passaggio.Appunto, come evitare che finita l’emergenza cali l’oblio su quanto è avvenuto?Spero che i media seguano anche la fase della ricostruzione. So che questo non avrà il carico di dramma che ha avuto l’arrivo del tifone. È una sfida per i mezzi di comunicazione: riportare non solo ciò che è sensazionale ma anche ciò che è nascosto, silenzioso ma altrettanto importante come appunto la ricostruzione. Si dice che la notiziabilità di un fatto è di sole due settimane e poi scivola dall’attenzione. La ricostruzione durerà ben più a lungo. Io prego tutti i responsabili dei media di non dimenticarsene.Come sta reagendo la Chiesa nelle Filippine?La Chiesa è stata tra i primi a correre in aiuto dei sopravvissuti e a prendersi cura delle vittime. Sfruttando il nostro network diocesano ci siamo messi in contatto subito con le parrocchie, con le scuole, con le organizzazioni di laici sul territorio e soprattutto con le Caritas locali per far arrivare beni, soldi e mettere a disposizione di chi aveva bisogno la presenza fisica di qualcuno. La mobilitazione è stata impressionante, tenendo presente che anche i vescovi, i sacerdoti, i religiosi hanno subito danni ingenti, nelle loro chiese e nelle loro scuole. Si tratta di guaritori anche loro feriti, ma che nonostante tutto cercano di sanare le situazioni che incontrano. Conosco anche molte parrocchie che hanno cancellato festività e celebrazioni per loro importanti, come segno di vicinanza ai colpiti dal tifone. Molte hanno a messo a disposizione i propri fondi e il tempo di tanti volontari per allestire i rifugi temporanei. È la fede che si staglia sulle rovine. È l’amore che è più forte del terremoto o del tifone.Qual è il compito di un pastore di fronte a una tragedia simile?Dalla mia esperienza, nelle tragedie un pastore deve trasmettere la presenza rassicurante della Chiesa, del Vangelo e del Signore. Una presenza che non pretenda di dare risposte facili al mistero della morte, della perdita e della distruzione. Silenzio, lacrime, preghiera, presenza – questo è l’approccio pastorale di cui c’è bisogno di fronte ad avvenimenti così sconvolgenti. Nell’arcidiocesi di Manila abbiamo organizzato un momento di preghiera chiamandolo «Lamento e speranza». È stata una liturgia che ha dato alle persone la possibilità di elevare a Dio le proprie domande e il proprio dolore. Abbiamo letto Giobbe, i Salmi e il grido di Gesù in croce «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?». Una liturgia per cercare Dio, il vero volto di Dio nell’oscurità. Cercare Dio è già un atto di speranza. Un pastore deve incoraggiare l’amore e la compassione. Nel caos e nell’incertezza le persone tendono a prendersela l’una con l’altra. Un pastore fa alzare gli occhi verso le cose che realmente contano, per evitare che si smarriscano fra quelle piccole e affinché si ritrovi la capacità di agire insieme. Infine, un pastore deve pregare intensamente, con le sofferenze e le speranze della gente nel suo cuore.

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