martedì 26 gennaio 2016
Il pedagogista dell'Università di Milano Bicocca Raffaele Mantegazza offre una piccola "guida" esistenziale per la visita al campo di concentramento di Auschwitz.
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Quale bagaglio ideale dobbiamo consigliare ai ragazzi e alle ragazze che stanno per effettuare un viaggio nei campi di sterminio?  Quali oggetti possono simbolicamente prendere posto negli zaini che essi tanto amano? In questo scritto proponiamo una sorta di “corredo di viaggio”, un bagaglio esistenziale che gli educatori e le educatrici devono aiutare i giovani e le giovani a preparare e a utilizzare durante questa esperienza.

 

La propria firma - La scelta

Nessuno può essere obbligato a visitare un campo di sterminio.  Questa esperienza è troppo forte per poter essere obbligatoria; ci sono persone anche adulte che semplicemente non ce la fanno a compierla, ciò vale a maggior ragione per i ragazzi: forzarli significherebbe sottoporli a una violenza inutile. Auschwitz non è una medicina, un principio attivo che, per virtù propria, aiuta ad essere democratici e aperti al dialogo. E del resto esistono moltissime persone che possiedono queste caratteristiche anche senza avere mai visitato un campo. Il viaggio ad Auschwitz va inoltre compiuto quando è il momento adatto: può essere a 15 anni, a 35, a 50, dipende dalle persone. I ragazzi e le ragazze devono essere convinti di questa  esperienza, sul loro viaggio ci deve essere la loro ideale firma come segno di una partecipazione voluta e aperta alle suggestioni e alle emozioni che incontreranno.

 

Un libro con le pagine bianche: la preparazione

Prepararsi per visitare un campo significa ovviamente conoscere con precisione la storia della Shoah, sapere che cosa è un campo di sterminio, saperlo collocare nello spazio e nel tempo. Ma non basta; occorre anche essere preparati rispetto alle forme dell’esclusione, alla storia del razzismo, dell’antisemitismo e delle altre forme di disprezzo della diversità. Si tratta dunque di pensare a percorsi storici, sociologici e antropologici: ma ancora non basta. Perché il viaggio  ad Auschwitz richiede anche la disponibilità a capire cosa c’entri tutto ciò con la propria vita attuale, con il proprio atteggiamento nei confronti dei diversi e delle tracce di diversità che albergano al proprio interno. Si tratta allora di prepararsi storicamente, sociologicamente, e anche religiosamente: ma soprattutto di lasciare molte pagine bianche per lasciarsi colpire, impressionare, stupire da ciò che si incontrerà. Non tanto perché si vedranno cose diverse da quelle studiate, ma perché diverse e inattese saranno le reazioni davanti ad esse, tutte promananti dalle pagine bianche del proprio spirito.

 

Biancheria intima: la privacy delle emozioni

In una società che mette l’intimo (fisico e spirituale) alla portata di tutti sui social network, il viaggio ad Auschwitz rischia di essere ridotta a una di quelle sciocche emozioni da quattro soldi condivise su Facebook magari alla ricerca di qualche “I like” da collezionare. Ma è invece proprio il rispetto per l’intimità ad essere il primo segno di differenza che il viaggio deve proporre rispetto alle altre esperienze, anche perché è stata proprio l’intimità delle vittime ad essere aggredita e distrutta da parte degli aguzzini. Dunque, occorre sapere fin da principio che, se Auschwitz colpisce il nucleo intimo di ciascuno di noi, è possibile ed è anche giusto che alcune delle emozioni provate non potranno essere condivise con altri. Piangere da soli, riflettere su se stessi, separarsi per qualche minuto dal gruppo: comportamenti che mostrano come Auschwitz ci restituisca una sorta di profondità che probabilmente eravamo convinti di avere perso e agisca come contravveleno rispetto alla dilagante moda della condivisione forzata di emozioni virtuali e false. 

 

Carta da lettera: la socializzazione delle emozioni

Sembra che questo punto sia in contraddizione con il precedente, ma non è così; o forse sì, e dobbiamo finalmente imparare che l’animo umano è costellato di contraddizioni e gli educatori e le educatrici non ne sono immuni. Se la preparazione della visita ad Auschwitz è stata collettiva, un momento collettivo  deve essere previsto in sede di quella che si può definire “restituzione”; purchè ciò avvenga nel rispetto di quanto  detto prima riguardo la privacy delle emozioni: per cui, in un momento di socializzazione, la domanda più sciocca da porre è “che cosa avete provato?”. Molto meglio usare  un reattivo (una immagine, una canzone, un film, la condivisione di un pasto) per suscitare qualche reazione e soprattutto essere preparati alla possibilità che da parte dei ragazzi l’unica reazione possibile sia il silenzio: forse questo potrebbe aiutare anche gli educatori e le educatrici a superare la vera e propria criminalizzazione del silenzio che è tipica della nostra società e purtroppo anche di alcune pratiche educative. Occorre dunque ricordare che il silenzio è una risposta che non sempre e non necessariamente va interpretata. Infine, un suggerimento di tipo pratico: il momento di condivisione non dovrebbe essere proposto il giorno stesso della visita, magari la sera, dopo che al mattino si è visitato Auschwitz e al pomeriggio Birkenau. Auschwitz richiede un tempo di sedimentazione, per cui la socializzazione delle emozioni andrebbe rimandata a un incontro successivo, anche a qualche settimana di distanza dalla visita.

 

Un lettore mp3: i momenti di distacco

Il viaggio ad Auschwitz non è una punizione, non è un esercizio ascetico: proporlo in questo modo ai ragazzi e alle ragazze significa non fidarsi della loro sensibilità, sottovalutare la ricchezza del loro animo. Posto che ovviamente occorre essere assolutamente severi sulle minime regole di comportamento (abbiamo visto più volte gruppi scolastici comportarsi in modo indecente nei campi), occorre però anche ricordare che si sta viaggiando con giovani e giovanissimi, la cui voglia di vivere, se espressa nei modi e nei temi corretti, è il più forte contraltare al culto della morte e della  distruzione del quale Auschwitz è testimonianza. Per cui: la coppietta che si apparta a baciarsi durante la visita va richiamata, la stessa coppietta che si abbraccia la sera dopo la visita testimonia la forza di un gesto umano; ad Auschwitz gli apparecchi elettronici restano spenti, sul bus che riporta a Cracovia la musica che esce dalle cuffie è segno del tentativo di ritagliarsi una normalità e una umanità dopo avere visto l’inumanità resa normale; una risata davanti ai forni è inaccettabile, un   sorriso all’uscita dal campo può essere segno del Bene che torna a splendere su noi. Ricordiamo che alcuni ragazzi di un liceo in visita ad Auschwitz  furono puniti dai loro insegnanti perché la sera dopo la visita si recarono in discoteca a Cracovia: qual è il senso non solo educativo ma umano di un atteggiamento del genere?

 

Un apparecchio acustico: l’ascolto

L’ascolto non è affatto una realtà primaria per l’essere umano, anzi è una delle attività più difficili in assoluto da imparare e da insegnare.  A volte si ha la fortuna di essere accompagnati  ad Auschwitz da un testimone. Ci sembra anzitutto importante dire ai ragazzi che, almeno fino alla porta del Lager, il testimone è un compagno di viaggio con il quale parlare di calcio e di politica e commentare il tempo atmosferico; ci sembra importante che il viaggio recuperi, sia per i ragazzi che per l’ex-deportato, un connotato di normalità. E ci sembra  ancora più importante sottolineare che il testimone ha bisogno anche di essere lasciato in pace: sarà lui/lei  a decidere quando e come parlare, e occorre fare attenzione al diluvio di domande che i ragazzi possono scatenare, in perfetta buona fede. Allora è assolutamente importante  che i giovani sappiano ascoltare in silenzio (merce sempre più rara in alcune delle nostre scuole) e prima di fare una domanda riflettere sull’opportunità di porla e di porla proprio in quel determinato momento. Ma ad Auschwitz non si ascolta il testimone: si ascolta l’aria, il silenzio, si ascoltano i riflessi della neve o l’insopportabile scintillio del sole (visitare Auschwitz con il bel tempo è intollerabile, molto più che visitarlo con la neve)  si ascolta il freddo, si ascolta il proprio appetito (capendo, ma non in modo moralistico, la differenza tra appetito e fame). Auschwitz propone una pedagogia dell’ascolto che però va preparata e  guidata, non può mai essere considerata come un presupposto scontato. 

 

Un tasto “pause”: il silenzio

Quanto sopra significa saper educare al rispetto del silenzio. Anche al silenzio del testimone, il/la quale  potrebbe non mai parlare di alcuni tratti e alcuni particolari della sua deportazione : del resto  molti deportati sono morti senza mai raccontare quello che hanno visto e provato. In un’epoca caratterizzata dall’istigazione al discorso, dall’obbligo di parlare sempre e  comunque di sé e della propria vita,  testimoniare il silenzio è qualcosa di nuovo per i nostri giovani. Il silenzio del deportato è una testimonianza dell’orrore subìto perché occorre violentare una persona in modo totale e raffinato per toglierle anche il desiderio dei testimoniare. Quello che allora occorre saper ascoltare è il silenzio di Auschwitz, di cui parla Neher: “silenzio innanzitutto della città dei campi di concentramento, ripiegata su se stessa, sulle sue vittime e sui suoi carnefici (…) silenzio poi di coloro che avevano finito per comprendere ma che si sono trincerati anch’essi in un ripiegamento di prudenza, di incredulità e perplessità (…) Silenzio infine di Dio”[1]. Ma c’è anche un silenzio che è rispetto, che è tacere, che è saper farsi da parte, depurare le proprie parole, saper essere essenziali nei gesti e nei  discorsi. Uno dei risultati più importanti del viaggio ad Auschwitz per i ragazzi e le ragazze potrebbe proprio essere quello di avere imparato, in una società fatta di chiacchiere inutili e di silenzi complici, quando, come e perché parlare, quando, come e perché tacere.

 

 

Una lente di ingrandimento: il compito al ritorno

Che cosa fa un ragazzo di ritorno dal viaggio ad Auschwitz? Anche se sembra paradossale,  il ragazzo potrebbe diventare neonazista o perlomeno confermi un orientamento razzista che aveva alla partenza; occorre sempre ricordare lo straordinario fascino del male, soprattutto  sulle coscienze adolescenziali: è indubbio che le SS, i gerarchi nazisti, il nazismo nel suo insieme possono suscitare ammirazione e identificazione nei giovanissimi. Il nostro ragazzo potrebbe poi riporre nella indifferenza quanto vissuto il giorno prima: per esperienza diretta possiamo dire che si tratta di gran lunga della reazione più comune. L’adolescente del quale stiamo parlando potrebbe avere una reazione del tutto diversa, considerando questa esperienza come una sorta di rivelazione se non di vera e propria conversione. Il ragazzo inizierà a leggere  tutto ciò che è stato scritto sul tema, divorerà Primo Levi ed Elie Wiesel, collezionerà i DVD di Schindler’s List e de La vita è bella. Ma crediamo che questa risposta di per sé sia insufficiente. Forse il giovane potrà leggere qualche testo, incontrare qualche testimone, visitare qualche sito dell’Aned; ma quello che noi speriamo è che il ragazzino ricordi lo sterminio degli omosessuali per capire perché i due suoi compagni maschi che si sono accarezzati durante l’intervallo sono stati presi in giro dai loro amici (e forse anche da lui); che pensi alla Shoah dei rom per comprendere come mai sono ancora i rom ad essere al centro delle politiche e dei discorsi razzisti nel nostro Paese; che rifletta sulla Aktion T4 contro i disabili per osservare con occhio diverso le barriere architettoniche che costringono il suo compagno sulla sedia a rotelle a chiedere sempre l’aiuto di due amici per salire il gradino che porta in biblioteca Questo a nostro parere è il senso profondo di tutto il lavoro sulla Shoah.  Si fa memoria della Shoah per riuscire ad essere più efficaci nel denunciare qui e ora ciò che sta accadendo: non tanto perchè Auschwitz “potrebbe ripetersi” ma perché Auschwitz non è la cosa peggiore che può capitare a un essere umano anche se per ora è la cosa peggiore che sia capitata all’Umanità. Il viaggio dunque comincia quando il viaggio finisce: e in fondo allo zaino c’è una lente di ingrandimento, per cercare con coraggiosa  tenacia le tracce, qui ed ora, di “ciò che è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo”[2]. E di ciò che alcuni uomini vorrebbero continuare a fare, se non contrastati dal coraggio di chi, anche di ritorno da un viaggio ad Auschwitz, si mette a cercare la forza, per osservare, testimoniare, denunciare.

 

E poi…

E poi, nelle tasche segrete dello zaino, un peluche, un biglietto con un messaggio d’amore, un dono, una penna che non scrive: tutto ciò che i ragazzi non ci faranno mai vedere, tutto il corredo della loro straordinaria umanità. Perché lo zaino di un adolescente è lo scrigno della sua umanità: in ciò che è condiviso e in ciò che è segreto; e perché ad Auschwitz dobbiamo portare i ragazzi, non i loro simulacri  o i loro penosissimi avatar virtuali: i ragazzi con la loro forza, con la loro carnalità, con il loro essere mistero, presenza di vita, segni dei tempi per una rinnovata speranza di umanità.

 

 


[1] André Neher, L’esilio della Parola. Dal silenzio  biblico al silenzio di Auschwitz, Genova, Marietti, 1991, p. 90

[2] Primo Levi,  Se questo è un uomo, in Opere, Torino, Einaudi, 1997, vol. I, p. 49

 

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