martedì 14 luglio 2015
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Il ddl Cirinnà, incentivo – anche solo involontario – per la maternità surrogata? Crescono le preoccupazioni, anche alla luce della sentenza del Tribunale di Milano. Sotto i riflettori c'è una norma particolare del disegno di legge: quella che consente a una coppia, anche dello stesso sesso, di adottare il figlio biologico del partner. Quella che va sotto il nome di stepchild adoption, insomma. Ma quale nesso lega l'ipotesi di legge all'utero in affitto? «Evidentemente – considera Alberto Gambino, ordinario di Diritto privato all'Università europea di Roma – due persone dello stesso sesso non possono procreare. Nel caso poi siano due uomini, a loro non rimane altro che ricorrere all'utero in affitto. All'estero, ovviamente, perché questa pratica in Italia è vietata».

Succede dunque che uno dei due fornisca il seme, una "donatrice" – in realtà a pagamento – fornisca gli ovociti, e un'altra ancora metta a disposizione il proprio ventre per una somma di denaro, quasi sempre come effetto della sua situazione di indigenza. Poi, una volta nato, la coppia riporta con sé il bimbo in Italia. E decisioni di giudici sempre più benevole lo dichiarano davvero figlio della coppia. Proprio qui si inseriscono i possibili effetti del ddl Cirinnà: «Già oggi – considera Gambino – la gran parte delle coppie che espatria per aggirare il divieto di maternità surrogata riesce nel proprio intento: non solo tornare con un bimbo, ma poterlo chiamare "figlio" proprio. Se poi venisse approvato questo disegno di legge nell'attuale formulazione, una situazione che ora è di fatto verrebbe a godere di specifica protezione giuridica». In parole povere: se oggi il frutto dell'utero in affitto può esser chiamato figlio grazie a ufficiali di stato civile o giudici indulgenti, un domani – con l'adozione attraverso il partner – si troverebbe a esserlo per legge». La questione è complessa. Da un lato c'è il diritto. Dall'altro quello che sempre più sentenze chiamano «supremo interesse del minore». In mezzo, uno Stato che ha gli strumenti per combattere l'utero in affitto ma sembra rinunciare a utilizzarli. Basti pensare a quanto accade già oggi. Gambino ricorda che «molte sentenze riconoscono il divieto di maternità surrogata ma poi rinunciano a dichiarare lo stato d'adottabilità del bimbo in quanto ormai da mesi con una determinata coppia. Dunque, sulla scorta del soggettivo "supremo interesse del minore" si liceizza quella che moltissimi ritengono una pratica aberrante prima ancora che un reato». Fin qui il profilo civile. Poi c'è quello penale, che si scontra con vuoti normativi e interpretazioni contrastanti. A partire dalla legge 40, che punisce chi pratica, pubblicizza o concorre in qualche modo a render possibile l'utero in affitto, ma non chi vi fa ricorso. Nella sostanza, per quella norma i genitori potrebbero farla franca. Ma altre disposizioni del Codice penale, per esempio quella che prevede una pena per chi dichiara come proprio un figlio altrui (è il reato di alterazione di stato del minore), possono essere invocate in casi simili. Qui tuttavia i giudici si dividono. E, molto più spesso, assolvono. Col risultato finale di dichiarare lecita una pratica che – al di là dei tecnicismi giuridici – una legge presenta in tutto il suo disvalore. Morale: «Se il ddl Cirinnà venisse approvato così com'è ora ? Gambino non ha dubbi ? la maternità surrogata riceverebbe un ulteriore incentivo».

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