Il terzo (e voluto) default dell'Ungheria
mercoledì 19 dicembre 2018

Gli oppositori già la chiamano 'legge schiavitù': è una norma varata dal Parlamento ungherese per arginare la carenza di manodopera che alza il limite degli straordinari annuali da 250 a 400 ore, pagabile a tre anni di distanza, che ha portato in piazza migliaia di persone nella prima autentica protesta popolare contro il premier Victor Orbán.

Ma pur di continuare a sbarrare le porte agli immigrati, l’Ungheria è disposta – ma fino a quando? – a sopportare un moto di piazza dagli esiti imprevedibili. Com’è possibile questa schizofrenia politica? Sarà nell’unicità del proprio idioma, o viceversa in quella assai disomogenea origine turco-magiarougrofinnica, ma qualcosa nella linfa segreta dell’Ungheria sembra prediligere le più impensabili scorciatoie per l’abisso. Dieci anni fa il Paese pativa la crisi economica internazionale innescata dalla bolla americana dei mutui subprime: virtualmente indifeso di fronte alla tempesta valutaria, il fiorino ungherese (ingannevolmente ritenuto solido come il dollaro o lo yen) naufragava trascinando con sé un terzo del benessere del Paese insieme al suo Welfare: con un tasso di disoccupazione al 9%, il Pil in calo del 6%, gli assegni familiari drasticamente defalcati, l’aumento del 30% dei figli dati in affido per l’impossibilità di garantire loro un’esistenza dignitosa, l’Ungheria del premier socialista Ferenc Gyurcsany sbandava tra un deficit pubblico incontrollabile e gli obblighi di Maastricht, finendo per alzare le tasse e penalizzare le imprese. Risultato, una nazione virtualmente in default.

Poi venne il Fidesz di Victor Orbán, discutibile capopopolo conservatore, che propugnava un mix di nazionalismo, sovranismo, difesa della cristianità, protezione dei valori tradizionali, virulenta xenofobia e profondo scetticismo nei confronti dell’Unione Europea, di cui pure l’Ungheria fa parte e dei cui fondi strutturali ampiamente beneficia. Con Orbán il temuto default dello Stato è stato scongiurato, soppiantato tuttavia da un altro default, quello democratico, che ha fatto gradualmente derapare la nazione verso una «democrazia illiberale» – così non senza un certo orgoglio la reclamizzano gli alfieri del sovranismo – che per certi aspetti è già una democratura sul modello della Turchia di Erdogan o della Russia di Putin. Ma Budapest non è sola: l’ostinata chiusura delle proprie frontiere agli stranieri poveri è fortemente condivisa dagli altri tre membri del Gruppo di Visegrád, la Polonia, la Slovacchia e la Repubblica Ceca. E ciò nonostante sia perfettamente conscia che sotto il profilo della sostenibilità demografica sta avviandosi a un terzo default: il tasso di natalità è sotto la media europea, la mortalità invece su livelli più alti come l’invecchiamento della popolazione, che non a caso arretra inesorabile, dai 10,7 milioni nel 1980 ai 9,8 milioni di oggi, con stime che – perdurante la politica di zero-immigrazione – vedrebbe calare la popolazione ungherese a 8 milioni nel 2050 (-17%), e così pure quella polacca (da 38,1 a 32,8 milioni, -13,9%) e quelle ceche e slovacche (entrambe di un 10% abbondante). Le porte tuttavia rimangono ostinatamente chiuse a prescindere: meglio in pochi ma di sicura origine, versione appena addolcita di quel germanico Blut und Boden – sangue e suolo – di poco rassicurante memoria.

E come pensa di rimediare il Governo? Di fronte all’inverno demografico che si preannuncia, le pur generose politiche di sostegno alla natalità e alla famiglia non bastano. Come non bastano gli straordinari coatti. Si fa strada invece una nuova dottrina, che individua i vantaggi della denatalità come argine alla globalizzazione: un futuro cioè in cui la forza lavoro sarà sempre meno richiesta e ne beneficeranno quei Paesi in cui minore sarà la domanda di impiego. Come dire: meno giovani uguale piena occupazione e ottime prospettive di alta scolarizzazione e buon livello competitivo sul mercato mondiale. Difficile commentare a mente serena. Com’è altrettanto arduo decifrare quel crogiuolo di sentimenti che unisce la freudiana memoria dell’orda primitiva con l’odio acceso per il conterraneo George Soros, ovvero società chiusa contro società aperta. In questo senso la scelta di Orbán appare chiarissima. Il futuro dell’Ungheria un po’ meno.

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