mercoledì 31 luglio 2019
Un cittadino sudcoreano, che era stato ridotto in schiavitù, ha ricevuto un indennizzo dal colosso giapponese Nippon, costretto al risarcimento da una sentenza della Corte Suprema
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Tokyo Lee Chun-sik è un arzillo vecchietto di 94 anni. Un anno fa ha vinto – o almeno così lui stesso credeva – la sua lunga e difficile battaglia giudiziaria, ma non quella politica, tuttora in corso, dopo quasi cent’anni, cntro l’oblio e l’arroganza delle istituzioni. Quelle coreane innanzitutto perché non sempre i governanti di Seul hanno mostrato impegno e coerenza nel combatterla e anche quelle giapponesi.

Perché una cosa è certa: nonostante qualche timida ed isolata ammissione di alcuni politici più o meno “illuminati” o semplicemente ragionevoli, Tokyo non ha mai brillato quanto ad ammissione di colpe, pentimento e, come si usa dire, «ravvedimento operoso» per quanto concerne le sue responsabilità nell’ultimo conflitto mondiale.

Un «passato che non passa», come continuano a denunciare Cina e Corea e come dimostrano le questioni territoriali ancora aperte con tutti i suoi vicini. Ma andiamo con ordine.

La sentenza della Corte Suprema di Seul, divenuta oramai definitiva, condanna il colosso giapponese dell’acciaio Nippon Steel, terzo gruppo mondiale per fatturato, a risarcire Lee Chunsik e altri tre ricorrenti, che sono, però, deceduti per fatti accaduti prima e durante la Seconda guerra mondiale.

La cifra è di fatto irrisoria. Tanto che la Nippon Steel ha seriamente valutato di ottemperare: meno di 100mila euro. Ma la sentenza è di quelle giudiziariamente e storicamente “pesanti”: la Corte infatti non solo riconosce che Lee Chun-sik venne «deportato » e di fatto «ridotto in schiavitù» per lavorare presso un’azienda giapponese che tuttora esiste. Viene anche respinto il tentativo della Nippon Steel di negare ogni rapporto con la “vecchia” azienda. Tutto è avvenuto in un contesto illegale: l’occupazione della Penisola coreana da parte del Giappone.

Apriti cielo. Anziché farsene una ragione, l’attuale governo giapponese ha reagito a questa sentenza con sdegno, minacciando – e in parte attuando – pesanti ritorsioni: blocco all’esportazione di alcuni prodotti “strategici”, imposizione di nuovi dazi, addirittura introduzione del visto per motivi di turismo.

Perfino il moderato ministro degli Esteri Taro Kono ha chiesto al presidente sudcoreano Moon Jae-in di intervenire per bloccare in qualche modo l’esecuzione della sentenza. La questione, tutt’altro che risolta, è in effetti abbastanza complicata dal punto di vista squisitamente giuridico.

Iil Giappone ha sempre rivendicato la legittimità, all’epoca dei fatti, della colonizzazione, citando, non senza una qualche ragione, il comportamento delle potenze “occidentali”, storiografico perchè, ancora oggi, agli studenti dei due Paesi vengono raccontate versioni completamente diverse, e soprattutto emotivo.

Non c’è un coreano, sia al sud che al nord, che non nutra sentimenti di profondo rancore nei confronti del Giappone, per quanto avvenuto a quei tempi e per il negazionismo delle attuali autorità, mentre in Giappone sono sempre di più, anche se per il momento non sembrano costituire un vero pericolo i neo-nazionalisti che soffiano sulla presunta necessità di restituire dignità al passato. Negandolo.

Così fa l’associazione “culturale” Nippon kaigi, alla quale aderiscono 15 dei 18 membri dell’attuale governo, compreso il premier Shinzo Abe, che è il presidente onorario e che, nello statuto, indica, come una delle sue principali missioni, quella di «liberare il Giappone e i giapponesi dal senso di colpa nei confronti del glorioso passato».

Una missione che prevede il costante – spesso arrogante – negazionismo nei confronti di crimini oramai storicamente accertatati, come il massacro di Nanchino, i crudeli esperimenti in “corpore vili”. I prigionieri di guerra russi e cinesi venivano, infatti, utilizzati come cavie umane per sperimentare le prime armi batteriologiche e, appunto, la tratta di “schiavi”. Operai per fabbriche e miniere, giovani donne per “ristorare” le truppe al fronte.

Il Giappone sostiene che a queste vicende sia stata data una soluzione nel 1965, quando i due Paesi firmarono un accordo che prevedeva il ristabilimento delle relazioni diplomatiche ed il pagamento di Tokyo a Seul di 800 milioni di dollari. Ma a titolo di “aiuti per lo sviluppo”, non di risarcimento per danni di guerra, ai quali il Giappone ha sempre rifiutato di essere tenuto.

«Tutto sarebbe più semplice se il governo giapponese si facesse promotore, come ha fatto la Germania a suo tempo, di una fondazione privata, dove le aziende potrebbero fare confluire fondi per i risarcimenti – spiega lo scrittore Satoshi Kamata – in questo modo il governo salverebbe la faccia, e le vittime verrebbero risarcite. Ma dubito seriamente che questo avvenga con l’attuale leadership politica».

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