venerdì 3 giugno 2016
​Cosa rimane dell'ex campo profughi di Idomeni, in Grecia, dopo lo sgombero effettuato da 500 poliziotti greci in tenuta antisommossa tra il 24 e il 26 maggio. Vite a brandelli a Idomeni dove tantissimi erano i giocattoli, gli omogeneizzati, i pannolini e in generale i prodotti per l'infanzia buttati per aria dopo lo sgombero.
Quel che resta di Idomeni
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Ci sono ancora le tende dell’Acnur montate, a ridosso delle recinzioni le ruspe e gli scavatori, i camion carichi di coperte grigie che vengono portate vie dall’ex campo di Idomeni, in Grecia. Sono al lavoro gli uomini delle pulizie, con tuta bianca e mascherina infilano nei sacchetti dell’immondizia brandelli di vita di circa 8mila persone. E brandelli, in questo caso, non è pura metafora: i poliziotti greci in tenuta antisommossa martedì scorso a Idomeni sono intervenuti in modo violento, è sufficiente guardarsi intorno a due giorni dallo sgombero, per rendersi conto che c’è devastazione dappertutto.Piatti di pasta con tanto di forchetta buttati per terra, patate sbucciate per metà, tavolini divelti, tende piegate soprattutto nelle aree informali. E ancora passeggini, giocattoli e peluches abbandonati, confezioni intonse di omogeneizzati, detergenti e saponi rovesciati qua e là. Entrando nelle poche tende Quechua rimaste in piedi si intravedono copie del Corano e della Bibbia in lingua araba, quaderni pieni di appunti in inglese e tedesco, ma anche mazzi di carte e centinaia di scarpe e sacchi a pelo buttati là, come se una forza improvvisa avesse sradicato quel poco di quotidianità che si era creata nel campo profughi più grande d’Europa.

LE FOTO SU QUEL CHE RIMANE DELL'EX CAMPO PROFUGHI DI IDOMENI

A una settimana dallo sgombero forzato di migliaia di migranti l’«operazione Idomeni» chiede ancora risposte alla Grecia ma anche all’Europa: sono state lasciati fuori a guardare centinaia di operatori umanitari, volontari e giornalisti; è stato impedito persino, negli ultimi due giorni prima dell’arrivo delle ruspe, che al campo venissero portati cibo e acqua; le persone sono state, poi, caricate sugli autobus, senza che sapessero nulla della loro destinazione. Per mesi il Governo greco ha investito risorse in una campagna informativa che convincesse i profughi a trasferirsi negli altri campi organizzati dai militari in Grecia per poi procedere in modo rapido e violento nello sgombero con l’obiettivo di liberare lo scalo ferroviario al confine greco-macedone.

Ma il risultato qual è stato? Stando al monitoraggio di Medici Senza Frontiere (Msf) che assiste con la sua clinica mobile i profughi nell’area tra Policastro e Salonicco, dei circa 8mila presenti a Idomeni nelle ultime settimane, almeno la metà dopo che le ruspe hanno tirato giù la tendopoli, hanno finito per cercare riparo altrove. Si sono dispersi tra i boschi e i campi, si sono accampati in edifici dismessi e pompe di benzina abbandonate, ma anche a bordo strada lungo la statale che porta a Policastro. L’Hara Hotel, fatto di piccole tende e ripari di fortuna, è uno di questi accampamenti informali: a ridosso delle tendine, il bar Pasquale fa affari d’oro vendendo cibo e acqua, ma anche ciabatte e prodotti per l’igiene personale. Le persone in mezzo alla piazzola di sosta per cucinare usano vecchi copertoni e bruciano di tutto, non ci sono bagni né docce, le condizioni igieniche sono inesistenti, nessuna grande associazione garantisce qui la distribuzione di cibo e di beni di prima necessità.

LE FOTO SULL'HOTEL HARA A POLICASTRO

Fa eccezione solo la clinica mobile di Msf che passa con la cisterna dell’acqua e la sua equipe di mediatori culturali e medici per vedere come stanno le persone. «Viviamo come animali, qui», in mezzo a rifiuti e cemento dice Jamila, 16 anni, afghana, che all’Hara Hotel è arrivata dopo tre mesi di viaggio. Ha attraversato l’Iran, la Turchia e ora si ritrova senza uscita, nel limbo greco. Come lei altre 52mila persone sono rimaste bloccate in Grecia, dopo che lo scorso 19 marzo la rotta balcanica è stata formalmente chiusa e l’Unione Europea ha firmato l’accordo con la Turchia per il ricollocamento dei siriani (finora meno di un migliaio quelli ricollocati, ndr).

«Piuttosto che vivere in questo modo preferirei tornare nel mio Paese – aggiunge con amarezza Jamila – ma non posso farlo: ho seguito mio fratello in Europa perché i miei genitori sono morti e non avevo altri familiari. Siamo io e lui. C’è sua moglie ovviamente e i miei due nipoti. Non so cosa ne sarà di noi. Non so dove andremo». Il suo inglese è ottimo, le sue riflessioni sono lucide: ma la stoccata la dà quando di colpo chiede: «Quando riaprono i confini?». È la domanda a cui tutti i 5mila profughi accampati all’Hara Hotel cercano risposta: ti chiedono di entrare a sederti nella loro tenda di fortuna, ti offrono una yufka con patate o una tazza di tè, e poi tornano dritto al punto: «Quando riaprono i confini?». E non sai che dire, alzi lo sguardo verso la vecchia insegna scolorita e un po’ kitsch in mezzo alla piazzola: c’è scritto «Welcome to Greece».

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