sabato 28 novembre 2015
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PUBBLICHIAMO L'EDITORIALE DEL NUMERO DI "NOI GENITORI & FIGLI" IN EDICOLA DOMENICA 29 NOVEMBRE CON AVVENIRE.

 

Al termine del Sinodo sulla famiglia, lo scorso 25 ottobre, il Papa si è chiesto: «Che cosa significherà per la Chiesa concludere questo Sinodo?». Parafrasando la sua domanda, potremmo chiederci: «Che cosa significherà per la famiglia concludere questo Sinodo?». Ora, se é vero che la parola definitiva dopo la duplice assemblea dei vescovi 2014-2015 toccherà al Papa stesso - nei modi e nei tempi che riterrà - è altrettanto vero che sia nel suo intervento di fronte ai padri sinodali, sia poi nel discorso pronunciato al convegno ecclesiale di Firenze, Francesco ha indicato una serie di punti fermi così significativi da non far ritenere inopportuno un tentativo di rilettura in chiave familiare. Potremmo cioè cercare di comprendere come applicare quelle indicazioni tra la pareti di casa, facendone tesoro per rendere sempre più libere da egoismi e chiusure le nostre relazioni più importanti. Basteranno pochi spunti, colti da entrambi i discorsi del Papa (si possono rileggere integralmente sul nostro sito www.avvenire.it). Ecco il passaggio in cui il Pontefice spiega lo sforzo del Sinodo come tentativo «di guardare e leggere la realtà, anzi le realtà, di oggi con gli occhi di Dio… in un momento storico di scoraggiamento e di crisi sociale, economica, morale e di prevalente negatività». Ogni coppia, ogni genitore, conosce ore tristi, situazioni in cui gli eventi familiari sembrano precipitare. Un momento di incomprensione tra coniugi, il reciproco disappunto che sale, parole a cui nessuno avrebbe mai pensato che schizzano come proiettili alzando un muro che, magari solo per un attimo, si teme possa diventare invalicabile. Il rischio più grande, in questi momenti, è quello della chiusura reciproca, quel silenzio che scende a gravare sul cuore e, come dice il Papa, potrebbe far prevalere negatività e scoraggiamento. Ma la strategia di uscita c’è, basta sforzarci di guardare la realtà, appunto, con “occhi di Dio”, che in questo caso potrebbe voler dire sospendere rivendicazioni e contrasti, per aprirci alla strada del perdono e della misericordia. Tentare di avere lo stessa prospettiva di Dio è tutt’altro che semplice. È un punto d’arrivo talmente elevato da risultare scoraggiante. E invece no, dobbiamo provarci. Magari basterebbe tradurre questa espressione così impegnativa con quella più familiare di “mettersi nei panni dell’altro”. cop_201-ok_cop143.jpgSe guardo mia moglie, mio marito, i miei figli, i miei genitori anziani con lo stesso atteggiamento di comprensione e di partecipazione emotiva con cui io vorrei essere guardato da loro, ho già cominciato a intuire che quella reciprocità nutrita di comunione, potrebbe davvero rappresentare “lo sguardo di Dio”. Qualche riga più sotto, nello stesso discorso, Francesco esorta i padri sinodali a «superare le costanti tentazioni del fratello maggiore». Quell’atteggiamento cioè che talvolta, trasferito in ambito familiare, ci induce a guardare dall’alto in basso, con animo un po’ infastidito e un po’ rivendicativo, situazioni di coppia più aggrovigliate delle nostre, fallimenti, ricongiungimenti, vite “in prova”. Tanto più se queste famiglie ferite vengono messe – giustamente - al centro del rinnovamento pastorale, secondo quanto ribadito anche dalla Relazione finale del Sinodo. Il pensiero che di nasconde dietro questo irrigidimento interiore, quasi sempre implicito, forse inconfessabile anche a se stessi, potrebbe essere questo: “Ma se queste persone non sono state in grado di tenere insieme la loro famiglia, mentre noi ci stiamo riuscendo da anni, è evidente che dobbiamo collocarci su piani diversi, perché i nostri meriti anche agli occhi della Chiesa, devono essere maggiori. La nostra fedeltà va premiata». Quanto questa convinzione sia lontana dal Vangelo, quanto la meritocrazia non c’entri nulla con fraternità e accoglienza, dovrebbe essere di evidenza tale da rendere inutile parlarne. Eppure, anche nelle nostre comunità, questo rischio è talvolta presente. Tanto che alcuni padri sinodali, intervenendo nel dibattito sulla questione della riammissione ai sacramenti, hanno fatto notare come il primo Corpo di Cristo di cui hanno bisogno le famiglie ferite, sia l’abbraccio amorevole delle altre coppie “normali”, sia la vicinanza reale, semplice, non artificiosa, non carica di retro pensieri alimentati da una supposta superiorità morale. Davvero in famiglia, e tra le famiglie, va abbandonata la tentazione di rivestire i panni del “fratello maggiore” della parabola. Ultima annotazione, questa volta prendendo spunto dal discorso del Papa a Firenze. In particolare dove indica i tre sentimenti necessari per costruire un nuovo umanesimo: umiltà, disinteresse, beatitudine. Scelte che, anche in chiave familiare, diventano percorsi interiori irrinunciabili per tessere reti di verità tra le persone che ci sono vicine. L’umiltà tra le pareti di casa deve innanzi tutto tradursi nella disponibilità a metterci sempre in discussione. A non far mai calare dall’alto le nostre indicazioni. A ribadire a noi stessi che il ruolo di genitori ci assegna responsabilità non patenti di verità indiscutibile. Il disinteresse poi è quel sentimento che ci dovrebbe portare a fare sempre un passo indietro per far prevalere necessità e aspettative del coniuge, dei figli, degli altri membri della famiglia. Un padre che sa prendere le sue responsabilità, ma sa capire anche quando c’è da fare un passo indietro, che non solo non rinuncia a nulla dei propri compiti, ma si mette nella prospettiva migliore per prevenire, valutare, proporre soluzioni. E infine la beatitudine, che è quella - ci spiega il Papa - «di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso le persone care». Davvero è questa la beatitudine che deve allargarsi in una famiglia capace di costruire il futuro di un nuovo umanesimo fondato sul Vangelo e aperto al mondo. Non ci sono alternative. Se non affonderà le radici nella famiglia non germoglierà alcun nuovo umanesimo. E tutti saremo un po’ più soli.

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