domenica 25 ottobre 2020
Nella Penisola non ci sono le condizioni per battesimi o funerali tenuti dai laici. E neppure per liturgie della Parola al posto delle Messe festive dove manca il parroco
Una famiglia che partecipa alla Messa in una parrocchia italiana seguendo le misure anti-Covid

Una famiglia che partecipa alla Messa in una parrocchia italiana seguendo le misure anti-Covid

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Anche in Italia i laici guideranno una liturgia della Parola nelle domeniche e nelle feste di precetto? Oppure amministreranno il battesimo? O celebreranno i funerali? E ancora. Assisteranno ai matrimoni su delega del vescovo? E predicheranno in chiesa (ma non a Messa)? Non è questo il futuro della parrocchia nella Penisola. Almeno nell’immediato, grazie al cielo. E non lo prospetta l’Istruzione vaticana sulla “conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa” uscita a luglio. Perché la scelta di affidare a un “non prete” alcune azioni liturgiche «rappresenta una forma straordinaria cui si può ricorrere in contesti molto distanti ecclesialmente da quello del nostro Paese», spiega don Armando Sannino, docente di teologia della parrocchia al Pontificio Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” dell’Università Lateranense a Roma. Don Sannino ha scandagliato nel dettaglio il volto della parrocchia italiana e lo racconta nel volume Nuova immagine di parrocchia. Un modello di rinnovamento( Lateran University Press; pagine 384; euro 34). «Le eccezioni presenti nel recente documento della Congregazione per il clero non sono una novità e il testo non apre scenari nuovi – afferma il docente –. Si tratta di opzioni pastorali immaginate per aree del mondo dove la mancanza di sacerdoti è conclamata. L’Italia, che pure soffre per la riduzione del clero, vive altre tipologie di criticità che non giustificano l’adozione di queste modalità ». Anche il caso di avere la Messa ogni due domeniche, alternata con una liturgia della Parola, non si concilia con il Belpaese. «Sarebbe un errore adottare tale soluzione unicamente per risvolti pratici – riferisce don Sannino –. Del resto in Italia le Messe festive sono celebrate con sostanziale capillarità, nonostante gli evidenti disagi di alcuni presbiteri che per soddisfare tante necessità devono sottoporsi a veri e propri tour per raggiungere le varie chiese».


Il teologo Sannino: rinnovarsi curando le relazioni e collaborando di più Non bastano input dall’alto o lettere dei vescovi «Le diocesi accompagnino le comunità perché incontrino la gente»

Cambiare si può

È ben altro ciò di cui ha bisogno la parrocchia nella Penisola per togliersi «quelle ruggini che ha accumulato», come le definisce il teologo, e per continuare a essere «fontana del villaggio », secondo la celebre definizione di Giovanni XXIII. «Le nostre comunità – avverte il sacerdote – sono consapevoli della necessità di un rinnovamento ma ancora stentano a trovare le vie per declinarlo nel concreto. Uno stallo che porta a una pastorale ancora molto centrata sulla preparazione ai sacramenti e sulla loro celebrazione. La prassi sacramentale, pur rimanendo un tesoro inestimabile per la parrocchia, andrebbe, però, collocata in un’azione globale che ha come fulcro l’evangelizzazione. Infatti, mancando un’effettiva spinta missionaria, si fa fatica a incidere sul vissuto della gente che in massima parte non ha familiarità con le stanze ecclesiali e quindi con il Vangelo». Di fatto all’ombra del campanile c’è carenza di «progettualità », parola chiave secondo il docente. Che chiarisce: «Non basta fornire indicazioni dall’alto. Non ci si può fermare ai documenti o alle lettere pastorali di un vescovo. Occorre accompagnare le parrocchie perché le istanze di rinnovamento siano tradotte nel quotidiano. Tocca quindi alle diocesi attrezzarsi per essere accanto alle comunità e favorire la loro conversione in senso missionario ». Come? «Ad esempio, passando dagli slogan a veri e propri laboratori pastorali che coinvolgano i sacerdoti e gli operatori pastorali per creare o consolidare una rete di collegamento fra tutti gli abitanti della parrocchia. Perché oggi l’annuncio del Vangelo non può limitarsi agli amboni o alle locandine affisse magari negli atri dei condomini. Una strategica azione pastorale deve aiutare la parrocchia a risvegliare il coinvolgimento e il senso di appartenenza attraverso un’effettiva cura delle relazioni, da cui passa la trasmissione della fede. E ciò va fatto anche ricorrendo alla Rete e ai social network che andrebbero sempre di più utilizzati».

Oltre il campanile

Niente marketing pastorale, comunque. «Compito della comunità non è vendere un prodotto ma proporre la vita nuova in Cristo che va accolta con libertà interiore». Elemento fondamentale resta il territorio che fa essere la parrocchia una “casa fra le case”, come dice l’Istruzione. «Se questa dimensione ha prima di tutto implicazioni giuridiche legate al diritto canonico – sottolinea il teologo – il documento vaticano parla del territorio anche come spazio esistenziale che va oltre le delimitazioni geografiche. Allora, per progettare il domani, la parrocchia non può avere una visione statica del territorio ma deve assumere una prospettiva dinamica che tenga conto di una società dove la mobilità ha modificato abitudini e stili di vita e che vede tante persone, più che dimorare in una zona, transitarvi o sceglierla. Ecco perché diventa vitale la collaborazione fra le parrocchie per essere maggiormente capaci di situarsi, in una logica di incarnazione, in contesti dove il territorio non risponde più a caratteristiche omogenee». Comunità senza confini, quindi? «Direi comunità aperte, che non si ritengono autosufficienti e che sono in grado di dare una lettura teologica del territorio cogliendo il passaggio di Dio fra il popolo», suggerisce il docente. L’Istruzione pone l’accento sulle aggregazioni fra parrocchie, come le unità pastorali, sempre più diffuse in Italia, ma anche i decanati o le foranie. «Guai se le riduciamo a formule di ingegneria pastorale per fronteggiare la carenza dipresbiteri: in prospettiva sarebbero destinate al fallimento – sostiene lo studioso –. Prima di adottare qualsiasi denominazione giuridica, la sinergia fra le parrocchie ha bisogno di un’attenta lettura della realtà, con i suoi problemi e le sue potenzialità. Spesso, invece, si assiste a scelte che sono più che altro frutto di un’impostazione ideologica e non di un’analisi del vissuto concreto».

I laici? Non finti preti

Guida della comunità è il sacerdote, ribadisce l’Istruzione. No, quindi, al laico “co-parroco” o “responsabile parrocchiale”. «Dietro c’è una motivazione teologica, non solo pratica. È intorno alla mensa del Signore che la vita comunitaria trova la sua massima espressione. Il sacerdote, presiedendo l’Eucaristia, ricorda a tutti che ogni processo pastorale ha come obiettivo quello di crescere nella comunione in Cristo del quale i ministri sacri sono segno sacramentale ». Una prospettiva che non favorisce certo visioni distorte sul ruolo dei laici. «Non si tratta di farne dei finti preti – conclude don Sannino –. E l’Istruzione non vuole frenarne il contributo. Anzi, nell’ottica della corresponsabilità, sono il motore di un nuovo dinamismo pastorale ma nel rispetto della loro identità e vocazione. Richiamando un concetto caro a papa Francesco, diremmo che va costruita una parrocchia sinodale».



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