mercoledì 23 settembre 2020
Von der Leyen: un nuovo inizio per l'Ue. La Commissione propone di superare il trattato di Dublino con un sistema di "contributi flessibili" di solidarietà ai Paesi di primo arrivo. Prime critiche
La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen

La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen - Reuters

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«Missione compiuta». Il vicepresidente della Commissione Europea Margaritis Schinas commenta così il via libera dell’esecutivo Ue al nuovo Patto sulla migrazione, oltre trecento pagine, per cinque testi legislativi e tre raccomandazioni, atteso ormai da marzo. «Proponiamo – dichiara la presidente Ursula von der Leyen – una soluzione europea, per ricostruire la fiducia tra gli Stati membri e ripristinare la fiducia dei cittadini nella nostra capacità di gestire la migrazione come Unione» e questo «con il giusto equilibrio tra solidarietà e responsabilità». «La migrazione – dice Ylva Johansson, commissaria agli Affari Interni – è sempre stata e sempre sarà parte delle nostre società. Quello che proponiamo è una politica a lungo termine che possa tradurre i valori europei in una gestione pratica. Questo significherà una migrazione europea chiara e giusta». «Un importante passo verso una politica migratoria davvero europea» è la prima reazione del premier Giuseppe Conte. Parole analoghe anche da Berlino.

Partiamo da un punto cruciale per l’Italia: il concetto di «primo Paese di approdo» dell’attuale Regolamento di Dublino non viene cancellato, ma corretto. Perché il cuore della proposta è quello dello «screening»: blindare le frontiere esterne Ue con un possente filtro a carico dei Paesi di prima linea come l’Italia. I quali, con l’aiuto delle agenzie Ue (la Commissione propone la creazione di una vera e propria «Agenzia Ue per l’asilo»), dovranno, direttamente alle frontiere esterne, provvedere all’identificazione, alla registrazione, ai controlli sanitari e di sicurezza nonché operare una scrematura entro cinque giorni tra coloro che sono suscettibili di vedersi riconosciuto l’asilo e quanti invece hanno poche chance. I primi potranno essere oggetto della solidarietà degli altri Stati Ue, i secondi invece passano a una «procedura di frontiera» da ultimare entro 12 settimane, durante le quali starà alle autorità del Paese di primo ingresso concludere la pratica e quindi procedere al rimpatrio. Il tutto sotto l’occhio attento di un meccanismo di monitoraggio sul rispetto dei diritti umani. Possibile comunque la detenzione di migranti. Unica eccezione: se i migranti hanno legami con un determinato altro Stato membro (parenti, titolo di studio), potranno esser mandati là a terminare la procedura.

La solidarietà sarà obbligatoria ma «flessibile» e si applicherà nel quadro di un meccanismo che può essere attivato su richiesta di uno Stato membro: starà alla Commissione decidere. In situazioni non critiche, gli Stati membri potranno fornire solidarietà scegliendo tra l’accoglienza di migranti vulnerabili, la «sponsorizzazione» di rimpatri (i migranti restano nel Paese di primo approdo ma è l’altro Stato a occuparsi della procedura, entro otto mesi, altrimenti saranno trasferiti nello Stato sponsor), o anche altre forme di solidarietà, come invio di personale, mezzi, fondi o altro. Solo in caso di «crisi» conclamata, si ridurrà la scelta a due sole opzioni: accoglienza o sponsorizzazione. Novità: in caso di crisi ad essere ridistribuiti saranno tutti i tipi di migranti, non solo quelli vulnerabili. In caso di offerte insufficienti, la Commissione potrà correggere d’ufficio quanto proposto dagli Stati, ma non vi sarà mai obbligo di ridistribuzione.

Un caso a sé, e questo è positivo per l’Italia, riguarda i migranti salvati in mare, per i quali Bruxelles riconosce la specificità. Per loro non si applica il normale «screening», e scatta invece la solidarietà automatica (sulla base di un pool di risorse prefissate) con la possibilità di ridistribuzione per i migranti vulnerabili.

Per il resto il Piano prevede una cooperazione con i Paesi di origine e transito, per aiutarli a combattere le cause prime della migrazione (come la povertà), a rafforzare la lotta ai trafficanti e al controllo delle proprie frontiere e applicando o stipulando nuovi accordi di rimpatrio. Si parla però anche di vie «legali», sia per profughi in Paesi terzi, sia però anche per «talenti» di cui l’Europa ha bisogno. La parola passa ora agli Stati membri e al Parlamento Europeo, e non sarà facile. La Commissione auspica un accordo «entro il 2020», ma la presidenza tedesca dell’Ue si accontenterebbe di varare entro dicembre almeno una tabella di marcia per l’approvazione.

Qui il testo del Patto per asilo e migrazione

Due fronti contrapposti (e troppi oneri)

La proposta della Commissione Europea è anzitutto una cosa: un disperato tentativo di trovare la quadra tra posizioni difficilmente conciliabili: da una parte i Paesi di prima linea come l’Italia che hanno bisogno di solidarietà vera, a cominciare dalla redistribuzione dei migranti, dall’altra i Paesi Visegrad (Ungheria, Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca) che non vogliono neppure sentirne parlare. Ed è passata, almeno in parte, la loro linea, quella della solidarietà «à la carte». «Abbiamo trovato una soluzione all’interno delle linee rosse (delle capitali, ndr) – ha ammesso il vicepresidente della Commissione, Margaritis Schinas –. Tutti gli Stati Ue non accetteranno mai i ricollocamenti obbligatori, questo lo sappiamo». Eppure qualcuno dei Visegrad già protesta, ieri da Praga sono già arrivate pesanti bordate visto che in teoria, se entro otto mesi il migrante «sponsorizzato» (che resta nel Paese di primo ingresso) non sarà stato rimpatriato, dovrà esser trasferito nel Paese sponsor. E l’Ungheria pretende campi fuori dall’Ue, impraticabile.

In compenso restano pesanti oneri per i Paesi di primo ingresso, con buona pace dell’«abolizione» del Regolamento di Dublino annunciato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, non a caso parzialmente smentita due giorni dopo dalla sua stessa commissaria agli Affari interni Yllva Johansson («Dublino non sarà abolito, ma emendato»). Perché Stati come l’Italia dovranno farsi carico non più solo di identificazione e registrazione, ma anche di controlli sanitari e di sicurezza e soprattutto di stabilire se ci siano o meno categorie vulnerabili suscettibili di ottenere l’asilo. E resteranno responsabili dei cosiddetti migranti «economici», salvo in caso di crisi conclamata, delle dimensioni, dice Schinas, del 2015.
Difficile non ravvisare uno squilibrio. Almeno, Bruxelles ha ascoltato l’Italia sul riconoscimento della specificità dei salvataggi in mare, per cui si può applicare subito la solidarietà, sul modello dell’Accordo di Malta in modo sistematico e automatico. Anche se, va detto, il numero dei salvati in mare sono una frazione rispetto a quelli arrivati in Sicilia ad esempio con i «barchini» dalla Tunisia. Sullo sfondo, è passata la linea della «fortezza Europa». Perché è fuori di dubbio che il focus principale è la blindatura delle frontiere esterne, anche con il «dialogo» (condito però anche di «ricatti» agli Stati che non cooperino sui rimpatri, ad esempio inasprendo il regime di visti) con i Paesi terzi di origine e transito. È il segno dei tempi.

Le critiche al progetto​

Ma già si stanno levando voci critiche. Tra le prime Oxfam secondo cui il progetto di riforma del sistema di asilo presentato dalla Commissione europea, rappresenta un nuovo passo falso nella direzione sbagliata perché resta ben lungi dal realizzare una vera visione comunitaria nella gestione del fenomeno migratorio, che parta da una condivisione di responsabilità e della tutela dei diritti
fondamentali dei migranti. Ad esempio, sul tema dei ricollocamenti dei migranti dagli Stati di primo arrivo, come l'Italia, l'adesione degli altri Paesi membri resta su base volontaria, trattandosi di un progetto di riforma che definisce un indirizzo generale.


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