giovedì 27 settembre 2018
Il pianista, artista e performer sabato sarà a Bolzano per il festival Transart: «La parola musica è troppo precisa. Tutto ciò che faccio è sacro, un viaggio nel trascendente»
Charlemagne Palestine (1947) durante una performance

Charlemagne Palestine (1947) durante una performance

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«I justttttttt DOODOO likeeee DoggggyyPoooopp!!!». No, nessun refuso e neppure un attacco di follia. Un’intervista con Charlemagne Palestine è un po’ come vivere in una pagina di Finnegans Wake. Una lingua tutta sua, al fondo intraducibile e impossibile da “riorchestrare” in italiano, ma perfettamente comprensibile nel suo senso profondo. Benvenuti in Charleworld, onirico ironico surreale sciamanico universo del pianista performer artista americano, 71 anni, da Brooklyn, New York.

Palestine scrive come suona, usa le parole come i tasti di un pianoforte o di un organo, cercando la vibrazione pura. Una ricerca iniziata negli anni 60, quando ogni pomeriggio saliva la torre della St. Thomas Church, che condivide l’isolato con il MoMA, per suonare il suo carillon di 26 campane: rintocchi inauditi per il panorama acustico di Manhattan, al punto da suggerire a John Cage di fare una capatina in vetta. E sfociata poi in performance pianistiche, lunghe anche ore, in cui Palestine in trance ribatte continuamente e con lentissime variazioni, due note o due accordi, così da sollecitare dalle corde riverberi inattesi e arcobaleni di armonici. È la Strumming music, come si intitola anche il disco capolavoro del 1974, da molti avvicinata (a dirla tutta non proprio a torto) alla musica di Reich e, soprattutto, La Monte Young, sebbene Palestine abbia sempre rifiutato parentele. «Lascio soltanto che le cose entrino nelle mie orecchie – spiega – e ciò che sento è ciò che sento… Ma in particolare non amo la parola “musica”, è troppo specifica. Io perrrceeeeepissssscosssuooooniiiii e ssssentosuoooniiiii, e quindi risssponnnndoooo».

Charlemagne Palestine sabato sarà a Castel Ganda, ad Appiano (Bolzano), in collaborazione con il duo Islands Songs per uno degli eventi conclusivi del festival Transart. «Poiché preferisco vivere nel presente, non ho quasi idea di cosa accadrà. L’ambiente influenza in modo totale le mie performance. Assolutamente TUTTO influenza la mia vita e le mie performance. Tuttavia ci sarà una vigna e ci sarà del vino da bere… quindi al momento posso confermare che IL VINO VERRRRRRÀÀÀÀ BEVUTOOOOOOO»

Un’altra certezza sono gli animali di pezza con cui cosparge lo strumento e con i quali realizza grandi installazioni: al Pompidou, al Mo-MA, a Documenta (la mostra “Aa Sschmmettrroossppecctivve” si è appena conclusa al Bozar di Bruxelles, dove l’artista vive da una decina d’anni). Palestine è nato non distante dalla fabbrica dove Rose e Morris Michtom hanno inventato il primo “teddy bear”. «Questi non sono giocattoli, anche se alcuni sono pupazzi industriali, ma animali sciamanici, con una propria vita e una potenza interna. Sono le mie muse, le mie divinità, le mie anime, i miei legami con l’eternità. La mia vita è un “gioco sacro trascendente”». In ogni caso il mondo magico dell’infanzia è il regno della sua poetica: «Dal giorno in cui diventi una creatura nel grembo di tua madre fino forse alle fine dei tempi, dopo che hai lasciato questo pianeta per andare da qualche parte altrove, tutto questo e ancora di più è per INNNFAAAAANZIAAAA».

Palestine vive le sue performance come esperienze di tipo religioso, per quanto fuori da ogni schema confessionale e con un approccio carico di ironia. Così anche il suo abbigliamento, in apparenza bislacco, è quello di uno sciamano metropolitano. «Everythingggg I 'dooodooooo' I sacredizzzzeeeeee» dice Palestine: «Io sacralizzo tutto ciò che faccio». Il suo sciamanesimo contemporaneo non è in contrasto con il mondo ipertecnologizzato: «Non ho proprio nulla contro la tecnologia. Io la abbraccio e cerco di includerla nella mia ricerca sciamanica e mistica per l’In-Conosciuto, l’In-Questionabile, l’Innn!!!!».

Palestine è nato nel 1947 a Brooklyn in una famiglia ebraica: il suo vero nome è Chaim Moshe Tzadik Palestine. Il primo contatto con la musica avviene in sinagoga, nel cui coro canta fino ai 14 anni. «Le mie origini ebraiche hanno molto a che fare con ciò che sono. MA sono un ebreo laico. Un ebreo laico di New York può essere molto diverso da un ebreo laico europeo, o israeliano o di un altro posto». Allo stesso modo Palestine rifiuta ogni possibile identificazione con fenomeni culturali definiti per considerare il suo mondo come un bacino in cui può confluire ogni cosa: strati di storia ed esperienze personali: «Charleworld con i suoi ssuoniii e sssguarrrrdiiii e ritualiiii e dialoghiiii è stato all’inizio influenzato probabilmente da New York, Amerika, e poi dall’Europa: l’Europa dei miei nonni in fuga dall’oppressione dell’impero russo, e ora l’Europa mia nuova casa».

Palestine nel suo percorso ha incontrato molte delle figure centrali della cultura americana del secondo Novecento: da Ginsberg e Subotnick a Kaprow e Paik fino a Cage e Rauschenberg… «Se qualcosa di tutti gli innumerevoli amici e nemici geniali che ho conosciuto mi ha contagiato, quel che ho imparato è che devi ESSSERRREEEE TE STESSSSOOOO». E così condensa la sua carriera: «Io sono nato nei tardi anni 40, e questo è quanto. Sono stato adolescente nei 50, e questo è quanto. Quindi sono emerso come un giovane artista stronzetto durante i 60, e questo è quanto. Poi Soho, Tribeca e il giardino artistico della downtown di New York è fiorita, e questo è quanto. Quindi il mio magico ritorno sulle scene, durante la mia rinascenza nei 90 e la mia globalizzazione nei 2000, e questo è quanto ed è ora. Tutte le epoche sono erano saranno la miiia issspiraaazioooonnneeeee».

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