mercoledì 13 febbraio 2013
​I giudici europei: norma "incoerente". Il nostro governo si era opposto alla bocciatura espressa il 28 agosto scorso dalla Corte europea dei diritti umani.
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Alla fine è arrivata anche la conferma ufficiale. La Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo ha respinto il ricorso del governo italiano contro la sentenza del 28 agosto scorso in materia di coppie fertili e diagnosi preimpianto, rendendo così definitiva la decisione espressa in primo grado. Fino a tarda sera non risultava alcunché alla Farnesina cui, per prassi, vengono comunicate le decisioni della Cedu e che, poche ore prima, aveva ribadito come «qualsiasi notizia sia filtrata non è, ad ora, confermata». L’annuncio è contenuto in uno scarno comunicato diffuso in serata che, in mezzo a un nutrito elenco di casi respinti, indica il caso "Costa and Pavan v. Italy" senza aggiungere una parola. Il collegio dei cinque giudici preposti alla decisione non ha dunque ritenuto ammissibile il ricorso del governo, ma non ha fornito ulteriori elementi, né vi è alcuna traccia di motivazione. Questo fattore rende improprio ogni tipo di lettura che si voglia suggerire, così come ogni attribuzione d’intenti alla Grand Chambre. Questo considerando anche che l’appello del governo italiano si era concentrato su motivi di carattere procedurale.La questione, ricordiamo, era nata dal ricorso alla Corte di Strasburgo nell’ottobre 2010 di una coppia – Rosetta Costa e Walter Pavan – dopo che nel 2006, in seguito alla nascita del loro primo figlio affetto da fibrosi cistica, scoprirono di essere entrambi portatori sani della malattia. Nel desiderio di concepire un figlio che risultasse immune dalla patologia, decisero di tentare con la fecondazione artificiale previa diagnosi preimpianto, scontrandosi con le disposizioni della legge 40 che prevede il ricorso alla Pma solo per le coppie sterili e proibisce la diagnosi genetica preimpianto sugli embrioni prodotti. Con la sentenza del 28 agosto 2012, la Corte europea ha bocciato le disposizioni della legge 40 e ha dato ragione ai due coniugi, rilevando «l’incoerenza del sistema legislativo italiano» che «da una parte priva i richiedenti dell’accesso alla diagnosi genetica preimpianto» e «d’altra parte li autorizza a una interruzione di gravidanza se il feto risulta afflitto da quella stessa patologia». Concludendo quindi che «l’ingerenza nel diritto dei richiedenti al rispetto della loro vita privata e familiare è quindi sproporzionata». In realtà la legge 194 consente sì l’aborto cosiddetto "terapeutico" (dopo i 90 giorni), ma a determinate condizioni, cioè se quella malattia costituisce un «grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna», e non "soltanto" perché il bambino risulta malato.Contro la sentenza di primo grado il governo Italiano, proprio allo scadere dei tre mesi previsti, aveva presentato domanda di riesame, con un ricorso di tipo tecnico-procedurale secondo cui «l’originaria istanza è stata avanzata direttamente alla Corte europea per i diritti dell’uomo senza avere prima esperito – come richiede la Convenzione – tutti i gradi nazionali di giudizio e senza tenere nella necessaria considerazione il margine di apprezzamento che ogni Stato conserva nell’adottare la propria legislazione, soprattutto rispetto a criteri di coerenza interni allo stesso ordinamento».Ma questo nuovo ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Cedu che, così facendo – come riportano indiscrezioni di fonte ben informate – non si è esposta con una nuova sentenza, ma ha preferito chiudere il caso in questo modo, passando la parola al parlamento e al governo italiano che verranno.Con la restituzione del caso all’Italia si apre quindi uno scenario con diverse strade che contemplano anche la revisione della legge in Parlamento o un eventuale emendamento della stessa da parte della Corte Costituzionale. Ma giova ricordare che proprio la Grande Chambre, nel suo più alto grado di giudizio, aveva ribadito la piena autonomia degli Stati sulle questioni relative ai diritti umani.
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