giovedì 4 luglio 2013
Parla il padre della nuova disciplina l’italiano Mauro Ferrari, volato negli Usa. Sostenuto dalla fede nelle sue ricerche, è partito dalla lotta ai tumori per aprire un nuovo fronte clinico. «La nostra battaglia al cancro sta cambiando il modo di affrontare le patologie».
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Simone di Cirene, san Bonaventura e Clemente XI, i tre «nanotecnologi» preferiti dal padre della nanomedicina. Sì perché, se giocando a costruzioni con gli atomi e le molecole, Mauro Ferrari ha scoperto che si possono prevenire, diagnosticare con più precisione e perfino guarire le malattie, prima di tutto è un uomo che vuole testimoniare come la scienza sia legata alla «Maestà espressa nel mondo fisico». Attuale presidente e amministratore delegato del Methodist Hospital Research Institute di Houston in Texas, tra i primi dieci ospedali degli Stati Uniti per ricerca e assistenza, Ferrari è considerato il padre della nanomedicina a livello mondiale. Friulano di origine, si laurea in matematica a Padova e si specializza a Berkeley in ingegneria meccanica. Studia medicina in Ohio, ma il futuro che lo attende come ricercatore è ben diverso. Una serie di eventi importanti impongono un cambiamento di rotta: l’obiettivo diventa sconfiggere il cancro e far sì che non si muoia più al mondo di questo terribile male. Il suo impegno è indirizzato a questo ma, come lui sottolinea, gli orizzonti di applicazione delle nanotecnologie in ambito medico sono infiniti.Professore, colpisce che uno scienziato di fama mondiale parli di fede come motore del suo impegno professionale.Non completare la missione è omissione di soccorso, mi sono detto quando ho capito che le tecnologie di cui mi occupavo come professore a Berkeley in ben altri settori, appunto i precursori della nanotecnologia, potevano essere usate per trasformare la medicina. Simone di Cirene viene chiamato ad aiutare Cristo a portare la croce lungo la via del Calvario, senza preavviso o preparazione. Così dobbiamo essere noi pronti a riconoscere il bisogno nel prossimo che è immagine del Signore. Non c’è niente di speciale nella mia storia, tutti incontrano il dolore nel corso dell’esistenza. Ma trasformarlo in speranza che dà frutti concreti, lì sta la salvezza che Dio permette. La ricerca per me è davvero un processo salvifico che trasforma in vita lo sgomento di fronte al mistero del male. San Bonaventura tutto offre al Signore e chiede di essere in lui liberato dalle ansie terrene. Clemente XI canta la preghiera universale a cui mi unisco: occorre che l’intelletto sia ben illuminato e il cuore purificato per procedere, che l’anima sia sempre affamata dello Spirito per poterlo testimoniare e arrivare dove lui ti vuole portare, anche nelle opere.In che modo la sua ricerca sulle nanotecnologie può cambiare il futuro della medicina?Lo sta già cambiando da alcuni anni. Le nanotecnologie esistono da molto prima rispetto a quando si è iniziato a parlarne. Circa venti anni fa fu approvato per uso clinico l’archetipo della nanoparticella, il liposoma, una vescicola lipidica che racchiude un farmaco antitumorale. Con questa struttura nanoscopica, cioè dell’ordine di grandezza di decine di nanometri – un nanometro equivale a un miliardesimo di metro – la somministrazione del primo farmaco sperimentato, l’adriamicina, è risultata meno tossica. La particella entra nell’intorno maggiormente vascolarizzato del tumore sfruttando le proprie dimensioni e caratteristiche chimico-fisiche, senza alcun riconoscimento di tipo molecolare. Il miglioramento di questi «nanovettori» rappresenta uno degli obiettivi più importanti che stiamo perseguendo nel campo dell’oncologia.La prima applicazione clinica delle nanotecnologie è stata, dunque, la terapia antitumorale.Sì, e della dozzina di classi di «nanofarmaci» attualmente in vasto uso clinico, la quasi totalità viene usata in oncologia. Anch’io mi sono espressamente dedicato a questo ambito ma mi considero un artigiano, un possibile costruttore di strumenti per portare idee innovative nella clinica a 360 gradi. Il nostro obiettivo è passare dal laboratorio al letto del paziente nel modo più rapido possibile, mantenendo naturalmente le garanzie di sicurezza, in diversi settori primari della medicina contemporanea, quali quello cardiovascolare e neurodegenerativo. Il processo di traslazione dalla ricerca alla clinica è spesso più difficile della ricerca scientifica stessa. Negli Usa l’investimento sui nanofarmaci è ormai quasi equivalente a quello sui farmaci convenzionali o quelli biotecnologici. Nel 2005 è stato varato un progetto da 700 milioni di dollari sulla nanomedicina in ambito oncologico, che ho avuto la fortuna di formulare e di cui ho diretto le operazioni di lancio. In questo gruppo di lavoro, molti premi Nobel, fra cui James Watson, uno degli scopritori della doppia elica del Dna.Quali sono le altre applicazioni possibili?Oltre al rilascio mirato dei farmaci antitumore, ci sono le nanoghiandole impiantabili per rilasciare basse concentrazioni di sostanze per lungo tempo che sfruttano il principio della diffusione nei nanocanali, ovvero la «nano fluidica», altra disciplina nata nei nostri laboratori a Berkeley. Poi ci occupiamo anche di protocolli di medicina rigenerativa, di prevenzione e diagnostica. La considerazione di fondo è che il processo vitale in biologia è dato proprio da oggetti microscopici che coordinano quelli nano e noi imitiamo questo flusso: creiamo oggetti microscopici e li carichiamo con unità nano che fungono da vettori. Quali sono le difficoltà che avete incontrato in questo percorso?Mi piace dire che è più difficile arrivare al bersaglio cancro a causa di tutte le barriere biologiche da attraversare che non andare sulla luna. Cioè, occorre arrivare nel posto giusto al momento giusto per uccidere la cellula tumorale in un determinato quel paziente, diversamente da un altro. Per questo, abbiamo messo a punto dei «missili» multistadio per il rilancio mirato di farmaci, ossia capaci di agire in modo sequenziale. Il nostro organismo è come un castello dove, in una stanza, la principessa è tenuta prigioniera dal male: sappiamo molto bene come uccidere il male ma la difficoltà è arrivare a quella stanza. Abbiamo coniato una nuova terminologia, «oncofisica del trasporto». In sintesi, il cancro è una patologia delle barriere biologiche che alterano il trasporto molecolare e cellulare. Il percorso che ha portato a questo risultato ha ricevuto gli onori della copertina di rivista Nature già tre volte: nel 2011 su Nature Reviews in Cancer, dopo la prima uscita nel 2005 sulla stessa rivista che ha decretato ufficialmente la nascita del settore della nanotecnologia oncologica, e, infine, Nature Nanotechnology nel 2008.Come ovviare al problema delle barriere biologiche?Ottimizzando le caratteristiche della nanoparticella, sempre più precisa e in grado di portare a termine il suo compito. Ad esempio, abbiamo visto che la forma sferica è la peggiore per l’efficacia del trasporto: meglio la forma a «mezza noce di cocco». In poche parole, un decennio di studi matematici e di laboratorio è servito a riscoprire le piastrine! Come materiali, scegliamo materiali che si degradino facilmente nell’organismo, ad esempio il silicio poroso, e che non rilasciano sostanze tossiche.
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