venerdì 28 febbraio 2014
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È una sentenza che continua a far discutere, quella recentemente pronunciata dal Tribunale di Milano. Un verdetto di assoluzione per una coppia che, non potendo avere figli, era espatriata in Ucraina nell’intento di ricorrere alla maternità surrogata nonostante il divieto italiano. Ma, una volta nato il bimbo, i due avevano chiesto che il certificato di nascita stilato a Kiev secondo la legge del luogo fosse trascritto all’anagrafe meneghina. Una condotta per cui la procura di Milano li aveva messi sotto processo con l’accusa di “alterazione di stato”. E cioè per quel reato che punisce «chiunque – questa la lettera dell’articolo 567 del codice penale –, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità».Alla base della sua decisione, il tribunale ha posto il «diritto alla genitorialità», ritenuto esistente in capo alla coppia. Ma l’ordinamento giuridico, di questo diritto, non parla mai e la sentenza non ne ha spiegato il contenuto. Solo, ha lasciato intendere che è lecito avere un figlio anche quando la natura (e le leggi di un Paese) non lo consentono. Dunque, ha attribuito ai due un diritto a essere genitori in ogni caso.Un’affermazione diversa solo in apparenza è quella pronunciata il 14 marzo del 2012 dal Tribunale di Varese: «La perdita del frutto del concepimento causa una lesione del diritto alla genitorialità». Stessa lunghezza d’onda, il 3 gennaio 2008, per la Corte di Cassazione: «I padri naturali hanno sempre il diritto a riconoscere i bambini nati dalle loro compagne.L’istanza per ottenere il consenso giudiziale al riconoscimento può essere bloccata solo se vi è una forte probabilità di una compromissione dello sviluppo del minore che giustifichi il sacrificio totale del diritto alla genitorialità». Queste pronunce si riferiscono a casi diversissimi tra loro. Ma, sfrondate e analizzate nella sostanza, evidenziano un principio chiarissimo su cui la giurisprudenza odierna pare insistere con forza: il «diritto alla genitorialità» consisterebbe nella loro aspirazione ad avere o, se già nato, a godere del figlio.In passato, però, le cose andavano diversamente. Nel 2004, la stessa Suprema Corte per esempio aveva deciso in una prospettiva diametralmente opposta. Si era infatti concentrata sul minore, per giungere ad affermare che era lo stesso, e non il padre o la madre, il titolare di un «diritto a una genitorialità piena e non dimidiata». In parole povere, ad avere entrambi i genitori. Non solo. Questo diritto, che nel caso specifico trovava concretezza nella rimozione degli intoppi burocratici che impedivano il riconoscimento del figlio, veniva considerato dalla massima magistratura nazionale strettamente connesso con «l’identità personale del minore». Un’idea che si era già affacciata nel 1997, quando il Tribunale di Napoli aveva pronunciato una delle prime sentenze italiane contenenti la locuzione «diritto alla genitorialità».Insomma, negli ultimi 10 anni il principio ha visto completamente ribaltati contenuto e prospettiva. Teorizzato per evitare che si impedisse a un bimbo di crescere senza un genitore, ora è diventato la giustificazione per ottenerlo quel figlio. E ad ogni costo.
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