sabato 18 aprile 2015
Il tribunale di Reggio Emilia ha autorizato una vedova a farsi impiantare gli embrioni concepiti in provetta quando il marito era ancora vivo, considerandoli figli e non scarti.
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A poco più di due mesi dalla sentenza con la quale il Tribunale di Bologna aveva autorizzato una vedova ferrarese 50enne a farsi impiantare gli embrioni concepiti in laboratorio e poi congelati 19 anni fa con il marito poi morto prematuramente, arriva un altro verdetto a confermare che le decine di migliaia di embrioni conservati sotto azoto negli oltre 300 centri pubblici e privati italiani per la fecondazione artificiale sono vite umane che le coppie considerano come figli propri, e dunque non ammassi cellulari che possono essere scartati o sezionati a scopo di ricerca. Una sentenza del tribunale di Reggio Emilia ha autorizzato una donna di 35 anni a farsi impiantare un embrione concepito in vitro e poi congelato prima che il compagno morisse a 48 anni per un tumore ai polmoni. «Nell’ipotesi di embrioni crioconservati – si legge nella sentenza – ottenuti con consenso di entrambi i componenti della coppia, di cui uno successivamente sia deceduto» la legge 40 sulla fecondazione artificiale non mette alcun «limite alla esplicazione del diritto della donna ad ottenere il trasferimento degli embrioni». Infatti se è vero che all’articolo 5 la legge indica come requisiti soggettivi il fatto che ad «accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita» siano «coppie di maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile, entrambi viventi», al comma 3 dell’articolo 6 (Consenso informato) si parla della «volontà di entrambi i soggetti di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita», e dunque di concepire con i rispettivi gameti, e di una sua possibile revoca «fino al momento della fecondazione dell’ovulo». Quindi la volontà esplicita di entrambi i membri della coppia è prevista per il concepimento e si presume estesa all’impianto nel grembo materno anche se l’uomo dovesse morire. Il provvedimento del tribunale reggiano è stato emanato con procedura d’urgenza in soli due mesi, tenendo conto della situazione particolare, del fatto che il fattore tempo per la donna gioca a sfavore delle chance di ottenere una gravidanza e che questa vada a buon fine. Resta l’elemento discutibile della maternità avviata (e non già iniziata, come accade per un lutto improvviso durante la gravidanza) per un figlio che certamente nascerà orfano del padre. I due si erano conosciuti nel 2002: «Abbiamo cercato dopo poco un figlio – testimonia l’aspirante mamma al "Resto del Carlino" – ma non arrivava. Così nel 2010 ci siamo rivolti all’équipe dell’ospedale del Santa Maria Nuova di Reggio Emilia e abbiamo iniziato l’iter della procreazione assistita. Nell’inverno dello scorso anno ci comunicarono che lui aveva il cancro ai polmoni, purtroppo in fase terminale. È morto in estate. Subito dopo ho chiesto ingenuamente di poter iniziare subito l’iter, ma mi è stato detto che era necessario il consenso di entrambi i genitori. Sono stati i medici stessi a consigliarmi di rivolgermi a un legale». La donna ha molto apprezzato che «il giudice abbia valutato il lato umano della vicenda». Nel caso di Bologna la donna invece, pur vittoriosa in giudizio, s’era detta in forte dubbio sull’opportunità di avviare una gravidanza a 50 anni sapendo che avrebbe dovuto crescere il figlio senza il proprio marito.

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