venerdì 26 dicembre 2014
​L’Alta Corte di Dublino ha deciso di staccare i macchinari che tengono in vita una ventenne clinicamente morta, incinta da 18 settimane. (Francesco Ognibene)
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Due germogli di vita paralleli, due destini antitetici. È quel che è accaduto in questi giorni a due bambini, un italiano e un irlandese. È cronaca dei giorni scorsi la nascita al San Raffaele di Milano di un bimbo alla 32esima settimana di gestazione da una mamma in stato di morte cerebrale da oltre due mesi che era stata tenuta in vita artificialmente in modo da poter far crescere il figlio nel suo grembo fino al momento nel quale il piccolo avrebbe potuto sopravvivere autonomamente. Ieri invece l’Alta Corte di Dublino ha deciso di staccare i macchinari che tengono in vita una ventenne anch’ella clinicamente morta ma incinta da 18 settimane. I giudici hanno constatato che le condizioni generali della donna stavano peggiorando e non le hanno concesso alcuna chance, ipotizzando che la prosecuzione della gravidanza avrebbe comportato sofferenze al bambino. E per non farlo patire hanno deciso di dargli la morte. Dopo il ricovero in ospedale della donna il 3 dicembre e la constatazione delle sue condizioni ormai irrecuperabili, erano stati i suoi parenti a chiedere che si mettesse fine alla vita di madre e figlio. E i giudici, con sentenza che nessuna parte in causa ha deciso di impugnare, e che dunque diventa subito esecutiva, hanno scelto di considerare prevalenti le ragioni di chi sosteneva che le possibilità di sopravvivenza del bambino fossero esigue. Il parere unanime dei medici consultati dal tribunale era di sospendere ogni trattamento, considerando la gravità del quadro clinico e la fragilità estrema delle condizioni della madre. La giovane aveva postato su Facebook il suo entusiasmo per la gravidanza, ma la Corte di Dublino non ha voluto tentare di salvarne il frutto, come invece hanno fatto in una situazione del tutto analoga i medici milanesi. Sperando contro ogni speranza.

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