giovedì 30 ottobre 2014
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​Il silenzio le è forse pesato di più della sua menomazione. Il non poter parlare con nessuno, per anni, del dramma di essere nata senza vagina nè utero le fa incrinare la voce ancora oggi, a 20 anni dalla diagnosi. Raffaella Morelli, 39enne della provincia di Benevento, felicemente fidanzata, è stata quella bambina su 5mila di cui parlano le statistiche: è affetta dalla sindrome di Rokitansky, una malattia che riguarda la sfera della sessualità e della procreazione. Un argomento di cui si faceva fatica a parlare. «Alle porte dell’adolescenza – racconta Raffaella – non avevo le mestruazioni, così l’ultimo anno delle medie mi portavo un assorbente rubato a mia madre e durante la ricreazione andavo in bagno col mio pacchettino. Fingevo, mentivo per non sentirmi diversa dalle compagne. Ma qualcosa in me mi diceva che non avrei mai avuto quel dono. Finchè a 13 anni mi sono imposta con i miei genitori, dovete portarmi da un ginecologo, ho detto. Sono stata in cura da lui, un amico di famiglia, per sette anni, inutilmente. Mi ha imbottita di ormoni, facendomi fare una marea di esami, visite, analisi. Ma la cosa grave è che questo medico durante le ecografie affermava di vedere il mio utero, che non c’è».Solo a 21 anni Raffaella incontra quello che chiama il suo «angelo», il professor Antonio Zarrelli. «Gli è bastata una semplice visita per stabilire cos’avevo. Lo ha detto con dolcezza, mi sento ancora cullata dai suoi toni, mentre mi spiegava che era necessaria una ricostruzione vaginale e che non avrei dovuto preoccuparmi, non sarei stata sola. È stato lui a convincere i miei, io volevo solo sentirmi meno diversa e quanto più simile a una donna. Mi operai a Verona dal professor Luigi Fedele, il primo a intervenire su ragazze come me, oggi è un nostro punto di riferimento».Una «donna a metà» si definisce Raffaella: «L’unica soluzione per chi è come me, oltre all’adozione che non mi sentirei di affrontare, resta l’utero in affitto, praticabile solo all’estero». Ma per la psicoterapeuta Giuliana Mieli, che si occupa di problemi legati alla maternità e alla sterilità, «una disponibilità affettiva così bella come quella di Raffaella andrebbe dirottata su un bimbo che già c’è piuttosto che andando a creare un essere umano attraverso l’affitto dell’utero di un’altra. La mancanza di un utero non significa non possedere un aspetto femminile e materno forte, o la capacità di donarsi. A volte è necessario riappacificarsi con il proprio dolore e poterlo comunicare agli altri».Un’empatia forte che Raffaella è riuscita a stabilire soprattutto con altre «Roky». «È stato bello parlarsi, confrontarsi – prosegue – e soprattutto non sentirsi "la sola". Grazie a Facebook abbiamo allacciato numerosi contatti e conosciuto altre donne (www.facebook.com/groups/sindromeMRKH). Così pian piano ci è venuto in mente di poter far qualcosa ed è nata l’Associazione nazionale italiana sindrome di Mayer Rokitansky Kuster Hauser (www.animrkhs-onlus.org). Vent’anni fa la sindrome non era nota, spesso persino i medici la ignoravano. Per questo e per avere accesso a costose cure, interventi, visite di controllo, vorremmo che il ministero della Salute includesse la nostra sindrome nell’elenco delle malattie rare». Avere le informazioni giuste, il prima possibile, è importante: «Molte ragazze – dice Raffaella – vanno dal ginecologo tardi, e scoprirti così da adulta ti rimette totalmente in discussione. Saperlo presto significa anticipare i percorsi medici ed emotivi. Saperlo subito permette anche alla famiglia di essere più preparata nello stare accanto a una figlia».
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