giovedì 22 gennaio 2015
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«Se non è fair play non è sport», la frase esternata dal generale Gianni Gola, già numero uno della Federatletica e oggi presidente dell’associazione che ogni anno assegna il “Fair Play Mecenate”, colpì l’immaginario collettivo e fu quanto mai realista. La citò un paio d’anni fa proprio alla vigilia della sedicesima edizione del premio internazionale che nasce nell’aretino, e in poco tempo quella dichiarazione è diventata uno spot, quasi un refrain utile per ragionare sulla lealtà nello sport. Soprattutto perché in un sistema come quello sportivo, dove apparentemente basta poco per annunciare il fair play (basti pensare, per esempio, a quello finanziario ostentato dalle società di calcio, ovvero “tanto fumo e niente arrosto”), il “comportamento leale” lascia sempre a bocca aperta gli osservatori. Il motivo? Diventa sempre più difficile riscontrare correttezza e lealtà sugli scenari più importanti, fra gente che simula e falsità inopportune, questioni di doping e prevaricazioni varie. Così, spesso bisogna andare a scovare la “cavalleria” sui campi di periferia, nelle palestre sperdute, sui tartan più disastrati per annotare atti di generosità capaci di rendere lo sport non soltanto vero, ma “alla pari” per tutti. Qualche sera fa al PalaMontefiascone Paolo Tofoli, pallavolista che fece parte della cosiddetta “generazione di fenomeni” del nostro volley e che oggi allena il Tuscania in Serie A2, nel corso del tie break di una sfida di campionato contro la Tonno Callipo Vibo Valentia (per la cronaca la sua squadra veniva da cinque sconfitte di fila) ha fatto assegnare alla squadra avversaria un punto che gli arbitri non avevano visto. Il pubblico di casa ha capito, si è alzato in piedi e ha applaudito il gesto mentre il coach del sestetto calabrese si complimentava con l’ex azzurro. Poco vicino e qualche giorno prima, ad Acquapendente, Caio De Oliveira Dos Santos, un ragazzo di origini brasiliane che gioca nella juniores della squadra locale, aveva confessato all’arbitro di aver segnato con la mano il gol vincente che il direttore di gara aveva già assegnato ai suoi. Sempre nel Lazio: a Rieti, campionato di Prima categoria, durante la sfida Talocci-Real Monterotondo Scalo un calciatore della formazione ospite ha sbagliato volontariamente un calcio di rigore concesso dall’arbitro mentre un giocatore avversario era a terra. Gli episodi sui cosiddetti campi “minori” non mancano. Rappresentano il rovescio della medaglia e riconciliano con lo sport. Si, è vero, quando si parla di doping, per esempio, si scopre pure che per le maratonine di paese c’è chi fa uso di sostanze proibite per abbassare il record personale o per vincere un prosciutto; ma in quelle stesse gare c’è anche chi corre senza sotterfugi e mentre lo fa, magari, conforta l’avversario sfiancato che vuole alzare bandiera bianca e “mollare” prima del traguardo. Dicono sia umano, dicono che più è importante il proscenio e più difficilmente si possono riscontrare atti di correttezza. E forse è per questo che il gesto di Paolo Di Canio datato 18 dicembre 2000 (l’attaccante romano, con la sua squadra in attacco, fermò il gioco con le mani perché il portiere avversario si era infortunato) resta ancora vivo nella memoria degli sportivi. Un po’ come accade nel tennis per Stefan Edberg. Fu atleta talmente esemplare nel comportamento che dal 1996 l’Atp decise di intitolare lo Sportsmanship award (il Premio della sportività) proprio allo svedese, oltre 1.500 match disputati da professionista fra singolare e doppio e mai un gesto di antisportività in campo. Alessandro Birindelli, ex difensore della Juventus, rappresenta un altro esempio. Oggi allena gli esordienti del Pisa e in pochi giorni ha dimostrato che il suo fair play non è casuale: prima ha ritirato la squadra dal campo per un litigio sugli spalti fra genitori; domenica invece, dopo che l’arbitro (alla prima direzione di gara e col tutor a bordo campo) ha assegnato un rigore in favore alla sua squadra, ha chiesto al suo attaccante di andare dal “fischietto” per ammettere che non c’era stato fallo ai suoi danni. Indietro nel tempo, per tornare a un anno fa esatto, quando lo spagnolo Ivan Fernandez Anaya, secondo in una corsa campestre, si fermò per indicare al keniano Abel Mutai, che aveva dominato la gara fino a quel momento e che si era fermato pensando di aver tagliato il traguardo, che il “finish” era poco più avanti. E l’iberico arrivò secondo, correndo diligentemente l’ultimo tratto alle spalle dell’atleta africano. Ma sono episodi che si perdono nella notte dei tempi, perché le “buone notizie” non fanno mai notizia. Come accaduto di recente a Prato, dove i genitori di una squadra under 13 di volley femminile, l’Ariete Pvp, hanno ricevuto il premio fair play per la correttezza dimostrata sugli spalti mentre le figlie sul parquet guadagnavano “appena” un sesto posto. Insomma, anche se la “notizia” non è da prima pagina, sport e lealtà possono andare a braccetto, con l’augurio e la speranza che certi esempi diventino all’ordine del giorno anche in quei teatri dove si fa la fila per assistere allo spettacolo. Ma la strada è ancora lunga.
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