martedì 14 ottobre 2014
​La nazionale di calcio costretta a subire umiliazioni e a non competere in Africa per la paura del virus. Ma gli atleti non tornano nel loro Paese da mesi...
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Discriminati, isolati, offesi. Trattati come immondizia, per dirla con le parole di John Trye, portiere di riserva, sentitosi umiliato, così come i suoi compagni, tanto da desiderare di “prendere a pugni qualcuno”. Ogni volta, la stessa storia. Durante le partite, perfino nel corso di un allenamento. Quel coro (“Ebola, Ebola”) che scende dagli spalti, arriva fin sul campo, urta la sensibilità di chiunque ne abbia almeno un minimo, provoca frustrazioni in chi ne è fatto bersaglio. Pura idiozia, che non manca a nessuna latitudine. Triste destino, quello della Sierra Leone, nazionale per forza di cose itinerante, che gira il continente con la speranza (quasi vana) di qualificarsi per la Coppa d’Africa, ma senza potersi mai fermare a casa propria, dove il calcio è fermo dallo scorso agosto, quando il virus ha preso a far danni. Giocatori sottoposti a continui controlli, nonostante nessuno di loro giochi nel campionato del proprio Paese e non vi abbia mai fatto ritorno da luglio in poi. Un mese fa, dopo una trasferta in Congo, quattro “screening” in un solo giorno, prima di ripartire per i loro Paesi d’adozione (dove tutti giocano da professionisti), tra Europa e Stati Uniti. Un autentico calvario, dettato da prudenza. E in più, offese e umiliazioni. A luglio la nazionale delle Seychelles preferì dare forfeit piuttosto che ospitare la Sierra Leone: neanche il buon gusto di avvertire per tempo, solo una telefonata quando le Leone Stars erano già in Kenya, pronte a imbarcarsi sul volo finale. E gli episodi accaduti in Costa d’Avorio e Repubblica Democratica del Congo: non solo cori di scherno, anche avversari che si rifiutano si stringere loro la mano o di scambiare le maglie a fine partita. In Camerun, poi, le protesta degli ospiti di un hotel: e i giocatori della Sierra Leone costretti a cambiare struttura, là dove non c’erano altri ospiti. A fine partita, almeno, una amichevole stretta di mano, un gesto abituale, per una volta apparso straordinario ad Alie Badara Tarawallie, un dirigente federale: “Ci hanno stretto la mano: almeno loro non avevano paura di noi”. Quando della normalità si è costretti a meravigliarsi.
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