mercoledì 30 aprile 2014
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Il gioco di squadra, ecco cosa insegna lo sport. Prodigarsi per gli altri e mettersi a disposizione delle compagne Valentina Quaranta lo ha fatto per anni in mezzo a un campo giocando a hockey su prato, anche se era lei la leader. E ha continuato a farlo anche quando ha deciso di appendere scarpini e mazza al chiodo e di partire per l’Africa. «Era un’esperienza che volevo fare da tempo – confessa l’ex campionessa –. Ho aspettato di finire l’Università per fare domanda per il servizio civile». Così, ha messo la laurea in psicologia in valigia ed è partita per la Tanzania. «Non è stata una decisone semplice, partire non è mai semplice, però arrivata qui ho scoperto un altro mondo. Vivere qui, e soprattutto in un villaggio è duro ma affascinante. Parti con la convinzione di essere quella che aiuterà, che insegnerà agli altri le cose... ma appena arrivi realizzi che chi ha da imparare sei soprattutto tu». La scelta del Paese è stata quasi obbligata: «Conoscendo l’inglese e non il francese, ho scartato tutti i Paesi francofoni. Diciamo che è stata una serie di coincidenze e una buona dose di coraggio». L’esperienza dura un anno, dall’inizio 2011: «Ho vissuto e lavorato in un piccolo villaggio nel sud della Tanzania, al confine con il Mozambico, in mezzo alla campagna, lontano dalle strade asfaltate. Ho fatto formazione alle insegnati di una scuola materna per migliorare i metodi educativi, in pratica ho fatto la maestra ai bambini dai 3 ai 6 anni. Poi, con una collega, ho avviato un progetto di “women empowerment”, per la costituzione e la gestione di un gruppo di donne artigiane che fabbricano prodotti con i tessuti della loro zona. Prodotti da vendere sul mercato locale e in Italia».Un anno impegnativo, lontano dalla sua Bra, con vista sulle colline delle Langhe, e dall’amato hockey su prato al quale «ho iniziato a giocare a scuola, all’eta’ di 10 anni, e non ho piu smesso». Valentina è stata una delle migliori giocatrici italiane di sempre: con la Lorenzoni, la squadra della sua città, ha vinto tanti titoli italiani e nella nazionale azzurra è stata la leader indiscussa per anni. Per oltre quindici anni l’hockey ha rappresentato una parte importante della sua vita. In campo è cresciuta e ha imparato a vedere il mondo con occhi diversi rispetto a tanti coetanei. Un legame indissolubile, annodato con il filo del destino, un filo che ritrova quando se ne è allontanata, non solo virtualmente. A migliaia di chilometri dal suo “prato” l’hockey si riaffaccia nella sua vita: «È stato un caso. Pochi giorni prima di partire per l’Italia alla fine del servizio civile: ero sul “dala dala”, il pulman pubblico, di passaggio a Dar, stavo andando in vacanza prima di lasciare definitivamente la Tanzania. Un amico fuori dal finestrino ha visto un campo sterrato dove stavano giocando a hockey, era la squadra maschile di Dar Es Salaam, la capitale, e in quella circostanza ho conosciuto il coach Mnonda Magan, che adesso è il mio collega, assistente allenatore e team manager della nazionale. Insomma un tutto fare». Infatti, l’ex leader della squadra azzurra dopo qualche mese in Italia ha deciso di tornare ancora in Tanziana e al lavoro con la Cope, una Ong con sede in Sicilia, ha affiancato quello di allenatrice della nazionale femminile. Una nazionale creata dal nulla, con la sola forza di volontà che l’ha portata a superare difficoltà insormontabili, a cominciare da una cultura che vede la donna ben al di sotto dell’uomo nella scala sociale. «La condizione della donna è principalmente legata al suo ruolo sociale di moglie e madre. In Tanzania la maggior parte delle donne diventano madri giovanissime e hanno moltissimi figli. Qui esiste ancora la dote, le donne vengono “comprate” dai mariti, soprattutto nelle zone rurali. In città, invece, qualcosa sta lentamente cambiando. E il contrasto tra la vita in città e nei villaggi è disarmante, sono due mondi diversissimi. Qui il progresso, che va velocissimo, si scontra con una cultura lenta: lenta nel modo di pensare, di agire, di accettare il cambiamento. I cambiamenti sociali, poi, ci mettono tempo a consolidarsi, soprattutto per quanto riguarda questioni come i ruoli di genere». Condizioni ambientali difficili per lavorare, ancora di più per mettere insieme un gruppo di ragazze da avviare allo sport. Ma Valentina non è abituata a giocare le sue partite senza averle sudate fino all’ultimo secondo. Lo sport tempra il carattere e le difficoltà non appaiono mai insormontabili. Come la ricerca di fondi per attrezzare la squadra e pagare vitto e alloggio in Kenya per partecipare alla Coppa d’Africa, lo scorso novembre. Per allenarsi basta un po’ di fantasia, e le bottiglie d’acqua riempite di sabbia diventano pesi, ma affrontare un torneo è ben diverso, occorre un equipaggiamento adeguato. La richiesta di aiuto arriva in Italia e la risposta è immediata. Fra i sostenitori più attivi la federazione di hockey e il suo presidente Luca Di Mauro. L’associazione “Sport modello di vita” dona il kit di abbigliamento per le giocatrici e una raccolta fondi chiude il cerchio racimolando la cifra necessaria per la trasferta. Per il primo torneo internazionale giocato dalla nazionale femminile della Tanzania l’unico obiettivo era quello di fare esperienza senza sfigurare con le avversarie. Nessuna aspettativa sul campo, la vittoria le ragazze l’avevano già conquistata. Partecipando. Contro Kenya, Sudafrica e Ghana non c’è mai stata partita, tanti gol subiti ma anche la soddisfazione di uno messo a referto («il primo segnato nella storia della Tanzania femminile a livello internazionale»), e poco importa se è stato un autogol del Kenya: «La pallina è entrata nella loro porta, per cui conta come gol», si affretta a precisare una soddisfatta Quaranta. E un po’ di sana ironia aiuta anche a trarre il bilancio: «Al di là dei i risultati, la Tanzania è tra le prime quattro squadre di tutta l’Africa». La Coppa è stata un’esperienza unica per le ragazze, soprattutto dal punto di vista umano, una splendida ricompensa per i tanti sacrifici fatti. «Alcune di loro abitano molto lontano. Dar es Salaam è una metropoli caotica e affollatissima a tutte le ore del giorno e della notte, spostarsi da una parte all’altra della città richiede molte ore. Così, partono da casa alle 4 del mattino per essere al campo alle 6, quando inizia l’allenamento. Diverse di loro non hanno neppure i soldi per pagarsi il trasporto». Il progetto di Valentina continua a crescere e ha assunto una forte connotazione sociale: sono state coinvolte scuole e università, con lo scopo di reclutare giocatrici, e persino i detenuti di una prigione della capitale per produrre mazze da hockey. «Diffondere l’hockey tra i giovani equivale a trasmettere anche un messaggio di crescita e speranza».
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