giovedì 18 settembre 2014
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La prima “macchina da soldi” del pallone odierno è rappresentata dalla divisa ufficiale del club. Ha sbancato infatti il Real Madrid con l’acquisto dell’ultimo galattico James Rodriguez: della sua maglia personalizzata, questa estate in appena tre giorni ne sono stati venduti 354mila esemplari, al prezzo medio di 90 euro. La “camiceta blanca” di Rodriguez e compagni è un prodotto Adidas che in questo momento, nonostante l’effetto Mondiale (la finale di Rio tutta Adidas, Germania-Argentina) ha utili leggermente inferiori all’eterna concorrente, l’americana Nike, con la quale, dal 1976 - anno di fondazione - il casato sportivo tedesco ha ingaggiato un autentico derby commerciale. E finanziario, per chi non ne fosse consapevole, è tutto ciò che ruota intorno al giocattolo del calcio mondiale, in cui l’Italia, a cominciare dalle magliette ufficiali dei club, raccoglie le briciole. «È inevitabile - spiega l’esperto in materia, il direttore di SportEconomy.it, Marcel Vulpis - perché mentre in Spagna, Inghilterra, Francia e Germania tutto il merchandising delle società calcistiche è legalmente protetto, da noi domina ancora il prodotto contraffatto che, a Roma come a Milano, i bancarellai smerciano impunemente a due passi dal negozio ufficiale del club. In Europa non esiste un fenomeno del genere, ed eventualmente il sequestro della "falsa maglia" sarebbe immediato. Il nostro tifoso che compra la "copia" non dà un euro alla sua squadra del cuore, ma anzi glielo toglie, arrecandogli un grave danno d’immagine, oltre che economico. Un’arma per contrastare questa piaga della contraffazione ci sarebbe: investire sempre di più in Rete nell’e-commerce». Per combattere la contraffazione delle divise ufficiali e la tutela del brand, dai tempi del governo Prodi, c’è un disegno di legge dell’allora sottosegretario Giovanni Lolli e che adesso Scelta Civica sta per riprendere in mano, con gli onorevoli Rabino e Molea (imminente la nascita di un loro coordinamento nazionale dedicato allo sport). Ma i grandi buchi commerciali del calcio italiano, maglia “tarocca” a parte, originano dall’assenza di stadi di proprietà dei club. Quello della Juventus è l’unico edificato ex novo già attivo e sta dando risultati commercialmente importanti, anche se a tre anni dall’apertura non ha ancora trovato un “title sponsor”. «La Sportfive si è impegnata con la Juventus per 6 milioni a stagione nei prossimi 12 anni e per recuperare quei 72 milioni doveva vendere la sponsorizzazione a un prezzo che in Italia è assolutamente fuori mercato - spiega Vulpis -. Gli sponsor europei investono soltanto se in rosa figurano top player, che da noi latitano, o in presenza di club altamente attrezzati per vincere una Champions. Un successo del genere porta nelle casse della società fino a 60 milioni di euro, che è poi il 25% dei ricavi medi di una società di rango internazionale». Ecco spiegati i quasi 100 milioni di euro che l’Adidas dalla stagione 2015-2016 e per il prossimo decennio metterà a disposizione del Manchester United. I Red Devils, dopo aver sbagliato la messa in produzione della nuova casacca dell’asso Falcao (sulla schiena hanno stampato "Flacao"), fino ad allora vestiranno esclusivamente Nike. Ed è grazie alla Nike se lo United resta al vertice della classifica degli sponsor tecnici di maglia con 48 milioni di euro. «Le classifiche degli ultimi sette anni sono congelate. Dietro lo United c’è sempre il Real Madrid che l’Adidas “firma” per 39 milioni e poi l’Arsenal, al quale la Puma elargisce 37 milioni. Il Milan è 7° con i 27 milioni di contratto stipulato con Adidas e poi c’è la Juve che dalla Nike ne riceve 21». Juventus che dal 2015-2016 vestirà Adidas, grazie a un accordo da 29 milioni a stagione. «La Roma ha già fatto un contratto con la Nike da 4 milioni per dieci anni, ma non si capisce, ne prendeva 6 dalla Kappa - dice perplesso il direttore di SportEcomomy.it- . Ora la Nike ha promesso una maggiorazione a 5 milioni, ma solo nel caso in cui la Roma riuscirà a costruirsi il nuovo stadio». L’ok per il nuovo impianto giallorosso è arrivato e quindi la maggiorazione dello sponsor ci sarà, ma non prima di tre stagioni. Per reperire nuove risorse in un mercato ridotto a brandelli, una strada da intraprendere potrebbe essere quella della "titolazione" del club. «Il Siena chiese di diventare Mps Siena Calcio, ma l’allora presidente della Figc, Giancarlo Abete, pose il veto. Se l’idea del "title-naming" fosse passata, il Siena calcio già sei anni fa avrebbe risanato il bilancio e magari oggi non sarebbe stato costretto a ripartire dalla Serie D - sottolinea Vulpis -.  Se il nuovo presidente della Federcalcio, Carlo Tavecchio, volesse dare un segno di grande innovazione, sa bene che la vendita del diritto di nome di un club vale molto di più di quello dello stadio. In Giappone funziona con Kawasaki e altri marchi, in Germania vige da sempre al Bayer Leverkusen e al Wolfsfburg. Perché non pensare allora a un’automobilistica "FCA Juventus"? Il primo anno la novità spiazzerebbe i tifosi, ma poi verrebbe acquisita come un fatto del tutto naturale».L’imperativo è rompere l’impasse. «Siamo fermi a tre soli stadi di proprietà (Juventus, Udinese e il Mapei Stadium di Reggio Emilia, rilevato dal Sassuolo di Squinzi) e il Napoli è stato buttato fuori dalla Champions dal Bilbao - continua Vulpis - . Il club basco si è presentato ai preliminari con un San Mamès completamente rinnovato, a conferma della tesi che non serve per forza spendere cifre folli per costruire uno stadio nuovo di zecca, quanto piuttosto riammodernare quello esistente, rendendolo però un gioiello di design ben inserito nel contesto architettonico della città». Come l’Allianz Arena, la casa del Bayern Monaco, società che rappresenta il modello assoluto per i "ricavi più equilibrati": 35% derivanti da introiti da stadio, idem per sponsor e merchandising, 30-35% dai diritti televisivi. Quest’ultimi invece da noi pesano ormai quasi per il 70%. «Se fossi ad di una nostra società sarei molto preoccupato di un simile sbilanciamento», l’ennesimo allarme di Vulpis . Il calcio italiano rispetto alla concorrenza delle tre "grandi sorelle" (Inghilterra, Spagna e Germania) si consola con lo sponsor sui calzoncini. «Questa, così come il retro-numero è un’idea lanciata la passata stagione dalla Lega di Serie B. Una scelta obbligata per dare un po’ di liquidità: alla prima di campionato, ben 7 club di Serie A erano privi di main sponsor». In controtendenza la Nazionale di Antonio Conte. «Sono entrati in cassa 38,5 milioni di euro, con la Puma sponsor tecnico degli azzurri (14,5 milioni di euro annui), seguita da altre 18 aziende tra le quali Fiat che dal 2000 si è legata alla Nazionale per 3 milioni di euro a stagione. Ma anche in questo caso, Germania e Brasile incassano anche cifre doppie, se non triple, per indossare Adidas e Nike». 
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