venerdì 2 ottobre 2015
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​Èlì, scritta su documenti ufficiali, e sembrerebbe uno scherzo di cattivo gusto se non fosse invece tutto vero, se non ci fosse in testa un logo conosciuto, Fifa. Il 13 ottobre allo stadio di Seeb, in Oman, se la giocano la Siria e l’Afghanistan. Sarebbe una partita di calcio, è solo una partita di calcio, stabilita da un calendario, quello delle qualificazioni asiatiche ai Mondiali 2018: ma è chiaro che i pensieri volano da altre parti, atterrando velocemente sulla pista di una domanda: ma come fanno? Come è possibile sognare calcio, altro che giocarlo, in Paesi così dilaniati dalla guerra civile, dalla violenza quotidiana, costante? Anche il pallone deve finire fuori, come un tiro sballato, va in esilio, è profugo, segue il destino di chi lo calcia. L’Afghanistan disputa le sue partite “mondiali” in Iran, quasi sempre a Teheran, la Siria ha trovato un angolo tranquillo nel fondo della grande penisola arabica, in un Paese non casualmente appoggiato a quella Russia putiniana ostinatamente a fianco del regime di Assad e comunque amico dell’Arabia Saudita, che invece a detto regime tira contro.C’è già stata una gara tra le due nazionali, impegnate nel gruppo E della seconda fase della zona asiatica: i siriani ne hanno segnati 6 (a zero) dopo essersi ritrovati in Oman. Tutti giocano e soprattutto vivono lontano dalle martoriate terre di origine, molti militano in club iracheni - tutto dire - altri in campionati della zona arabica, due di essi sono giunti in Europa, il difensore Kallasi è in Bosnia, a Sarajevo e l’attaccante Sanharib Malki si batte nel campionato turco, nel Kasimpasa: «Ogni volta che scendiamo in campo lo facciamo per la nostra gente», ha raccontato, «la nostra missione è anche quella di cercare di dare un sorriso, di mostrare la Siria anche in una maniera positiva. Ce ne sono tanti, in squadra, che hanno perso parenti, pezzi di famiglia, quando scendiamo sul terreno di gioco cerchiamo di fare in maniera che chi non c’è più sia orgoglioso di noi». Molle emozionali che producono risultati per certi versi stupefacenti: nelle ultime nove partite, solo un pareggio concesso al Libano; per il resto, otto vittorie, tre delle quali ottenute nel girone mondiale. Damasco non è mai stata una capitale dei tacchetti asiatici o mediorientali, molta passione e qualche talento che anche Antonio Cabrini, tra il 2007 e il 2008, venne incaricato di incanalare verso strade di gloria, salvo poi venire immediatamente scaricato da dirigenti a dir poco approssimativi. Quei dirigenti e la Federazione tutta sono praticamente scomparsi dall’orizzonte. Eppur si muove, la Siria del calcio, eccome, aggrappata al dittatore, al regime tributario dei russi. Proprio oggi la Siria svolge un test contro i suoi ospiti omaniani in vista della gara che precederà il match con l’Afghanistan: l’8 ottobre, a Seeb, scende il Giappone di Honda, Nagatomo, Kagawa, calcio ricco di un Paese ricco, di emigranti di lusso e non di transfughi. Un risultato positivo, anche un pareggio, proietterebbe la Siria verso la terza fase delle qualificazioni continentali, quelle che assegnano i primi lasciapassare per Russia 2018. Tutto sta avvenendo lontano dai riflettori, dai social, dal mondo che legge parla scrive commenta: il pallone siriano è stato per molti giorni quello di Osama Abdul Mohsen, che altri non è che l’uomo sgambettato dalla reporter ungherese mentre sfuggiva dalla polizia sull’osceno confine del filo spinato. Faceva l’allenatore in massima divisione, aveva il figlio in braccio, chissà quante volte ha protestato per un fallo simile subìto dai suoi: qui ha protestato il mondo, e almeno l’umiliazione ha prodotto il lieto fine, ora sono in Spagna, a Getafe, Osama è stato preso come insegnante da una scuola calcio locale. Poco prima, avevamo conosciuto la storia di Mohammed Jaddou, 16 anni, capitano della Under 17 siriana condotta alla qualificazione ai Mondiali di categoria: ma squadre Nazionali, in Siria, significa Assad, si è capito. E Mohammed è dovuto fuggire per non fare la fine del 15enne compagno di squadra Tarek Ghrair, ucciso dai ribelli anti-governativi. È sbarcato in Italia dopo il consueto viaggio in cui è automatico vedere la fine sulla prua di un malandato barcone di legno: non ha dormito per cinque giorni, in 130 hanno tirato fuori l’acqua con le mani fino a quando una nave della Marina li ha salvati. Da noi non è rimasto, è in Germania, la sua storia è già finita in un docufilm, lui spera di venire inserito nel vivaio di un club di Bundesliga, duemila anni luce lontano dallo stadio nazionale di Aleppo, costato 30 milioni di euro e chiuso per bombe, da un campionato scomparso nei flutti nello scorso agosto, dopo essersi snodato per anni in partite assurde, dove buoni e cattivi non venivano stabiliti dalle pagelle, ma da un’appartenenza religiosa, politica, territoriale, con conseguente, costante rischio di lasciarci la pelle. C’è chi ha voltato le spalle, ha lasciato tutto, a cominciare dalla Nazionale di regime, c’è anche chi come Abdul Baset al Sarut, portiere di massima divisione di una squadra di Homs, si è messo a capo di una brigata jihadista. Tutti contro tutti e poi, in qualche maniera, insieme, cristiani, sciiti, sunniti sotto la stessa bandiera che il calcio e pochissimo altro contribuiscono a mantenere cucita. Martedì 13 questa squadra esiliata, diventata simbolo positivo e negativo suo malgrado si troverà di fronte altre facce di calciatori al momento senza patria, gli afghani che stanno tentando, faticosamente, di ritrovare un minimo di vita da Nazionale qualunque. Facendo finta di dimenticare che il precedente ct si è ritrovato un coltello nella schiena a gennaio, che queste partite internazionali, a casa, non si possono giocare, e quelle che si disputano sono perennemente sospese sopra un filo non troppo spesso. Siria-Afghanistan, in questo senso, sarà al sicuro, il rumore dell’impatto tra palla e piede a coprire per 90 minuti l’eco delle bombe.
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