sabato 25 aprile 2015
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Prima la proposta, al limite del rivoluzionario: a Inghilterra 2015 - il Mondiale in programma tra fine settembre e ottobre prossimi - soldi ai giocatori soltanto se si passa il turno. Poi, l’affondo, che indispettisce la nazionale italiana di rugby al punto da creare un muro contro muro dalle conseguenze ancora tutte da definire: «Non voglio pensionati in azzurro, così sono finiti al 15° posto del ranking mondiale e non ce li ho portati io...». Il presidente federale Alfredo Gavazzi attacca, gli azzurri si difendono, richiamando l’attenzione su decisioni che considerano improrogabili. La palla ovale tricolore non è mai stata così calda. Parola di Marco Bortolami, dal 2002 colonna portante di una rappresentativa che vuole cambiare e fare meglio. Anche sul campo. Giocatori della Nazionale contro la Federazione. Cosa sta accadendo al rugby italiano?«È un momento molto delicato. Sono cose, queste, già avvenute in passato e in qualche modo devono trovare una soluzione. La Nazionale deve prepararsi per i prossimi grandi impegni ed è normale che ci sia un confronto tra i giocatori e la Federazione».  Possiamo dirlo: non è soltanto una questione di soldi. Conferma? «Certo che sì. Non è soltanto un problema di rimborsi spese. Ci sono altre questioni da risolvere, che in tutti questi anni sono state un po’ troppo a margine del modo di ragionare di tutti. Non si può più rimandare. Il tema di fondo è che noi rugbysti non siamo considerati professionisti, ma dilettanti, e alla fine della nostra carriera non avremo una pensione e altre garanzie, che invece spettano agli atleti che praticano altre discipline. Bisogna sedersi a un tavolo e ragionarci seriamente. Nel nostro sport, gli infortuni sono all’ordine del giorno, dobbiamo essere più tutelati sotto l’aspetto contrattuale. Perché prima di essere giocatori, siamo persone». Eppure, risultati alla mano, il rugby tricolore è reduce da tante batoste nel Sei Nazioni. Come giustificare le deludenti prestazioni contro Francia e Galles?«Noi ci proviamo sempre ma dobbiamo renderci conto che i nostri avversari sono spesso fortissimi. La Francia è vicecampione del mondo, il Galles punterà a vincere il prossimo Mondiale. Dopo la vittoria contro la Scozia si era creata un’aspettativa molto alta nei nostri confronti, ma non possiamo perdere di vista la realtà. Francia e Galles hanno una tradizione rugbystica che non è nemmeno paragonabile alla nostra. Sconfitte pesanti, ma comprensibili. Ben vengano le pressioni, non faranno altro che caricare ancora di più la squadra. L’importante è che nel lungo periodo si veda una crescita, un miglioramento».  Lei ha giocato in Francia e in Inghilterra: cosa manca al rugby italiano per dare del tu alle nazionali più forti in Europa? «Molte cose. Quando ho giocato in questi due Paesi, mi sono reso conto di quanto lo sport sia inserito nella loro cultura sociale e nel loro percorso educativo, un approccio che ha ricadute evidentemente importanti anche nel contesto agonistico. Mi rendo conto che il nostro sistema scolastico abbia molte lacune e che lo sport non sia e forse non possa essere la priorità, ma un’attenzione maggiore a questa tematica potrebbe aiutare non poco i nostri giovani a sviluppare qualità che ormai sembrano assopite. Per molti anni, la Nazionale di rugby ha fatto da traino a tutto il movimento, ma ora è necessario fare e chiedere di più a tutte le realtà diffuse sul territorio: se vogliamo sperare di ottenere risultati migliori, dobbiamo puntare ad allargare il bacino di giovani che praticano il nostro sport». Bortolami, lei parla già da dirigente. «In tanti ne sarebbero felici, però se potessi scegliere non nascondo che mi piacerebbe allenare. Per mettere a disposizione degli altri l’esperienza che ho maturato in tutti questi anni di campo. Ci sto pensando seriamente, probabilmente ci proverò. In Italia o all’estero». A settembre nel Regno Unito c’è la Coppa del mondo. Per passare il turno, dovremmo fare meglio di Francia o Irlanda. Dica la verità: l’obiettivo è raggiungibile?«Raggiungibile, ma difficilissimo. Vero, tutte le squadre possono essere battute in una partita secca e noi non abbiamo alcuna intenzione di precluderci quello che sarebbe un passaggio storico ai quarti di finale. Ma attenzione a non sottovalutare le gare contro Canada e Romania, non saranno affatto facili. In più, la Francia giocherà per vincere il torneo e l’Irlanda è la migliore squadre europea dell’ultimo Sei Nazioni. Sarà una montagna molto ripida da scalare, ci aspetta un’impresa epica. Ma nulla è impossibile, ci proveremo». Dalla stagione 2010-11 la Celtic League ha aperto le porte anche alle squadre di casa nostra. Lo considera un progetto riuscito?«Sì e no. Sicuramente, è stato positivo confrontarsi con formazioni molto forti, ma se guardiamo la classifica qualcosa non torna. Si sarebbe potuto fare di più, a livello dirigenziale e tecnico. La responsabilità è di tutti. Non è comunque quello il nostro reale valore, ne sono convinto». Il rugby viene spesso citato dagli addetti ai lavori come modello di sportività e correttezza, fuori e dentro il campo. Riesce a spiegare perché è così diverso dal calcio?«Il rugby è nato in un college inglese come disciplina educativa, affinché i ragazzi imparassero a relazionarsi tra loro con il rispetto necessario. Ed è un approccio, questo, che ti rimane dentro. Non si può bluffare nel nostro sport. Si cresce con questa attitudine. Vincere è sì importante, ma ancora più importante è ripartire dalla sconfitta con la voglia di fare meglio».
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