domenica 9 novembre 2014
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Arriva dall’Italia, è una donna. Mica quel che ti aspetteresti, considerato il ruolo che ricopre: Manager dell’Ufficio Integrità Sport di Interpol. Lavora a Lione, gira il mondo. In collaborazione con la Fifa, coinvolgendo le autorità (calcistiche e di polizia) di ogni angolo del pianeta. Un grande obiettivo: combattere la corruzione che rischia di uccidere il calcio. Prevenzione e repressione, le due fasi di una dura lotta. Perché se il germe del match-fixing sta infettando il calcio non si può perdere altro tempo nel tentativo di sconfiggerlo. Lei è Daniela Giuffrè, giovane ma esperta, che ha fatto carriera, passando da un ruolo all’altro. È questo il suo approdo definitivo? «No, non credo proprio. Nella mia professione, come nella vita in generale, non ci si può mai fossilizzare. Oggi faccio questo, domani farò altro: lo richiede il mio lavoro, ma pure la mia indole». Una donna in prima fila a combattere la corruzione nel calcio: strano, in un mondo così maschilista? «Strano, ma non troppo. Le donne hanno fatto grossi passi in avanti sotto tanti aspetti: magari a una effettiva parità tra uomo e donna non si arriverà mai, ma le cose sono cambiate». È stato difficile essere accettata? «No, non lo è stato. Se penso a tutto l’arco della carriera, però, mi trovo d’accordo con chi dice che una donna deve lottare più duramente per ottenere quel che merita. Poi dipende dai Paesi. Le racconto un episodio che oggi mi fa sorridere, ma allora mi fece arrabbiare molto. Ero per un workshop in un Paese del Nord Africa. Più di cento partecipanti Solo cinque donne all’evento, me compresa. Dall’Interpol avevo ricevuto io l’incarico a partecipare alla conferenza stampa perché ero l’unica della delegazione a poter rilasciare l’intervista in francese. Le autorità locali hanno fatto di tutto per impedirmi di partecipare, volevano un uomo. Non me lo dicevano ma era chiaro a tutti. Alla fine vinsi io e sedetti a quel tavolo rispondendo anche a diverse domande». In questa battaglia, ha molte donne al suo fianco? «Stranamente nel mio team siamo più donne che uomini. Ma è vero che nei Paesi dove andiamo a lavorare, in questo settore troviamo quasi esclusivamente uomini». Lei guarda al problema globale, che però ha investito anche l’Italia: impressioni sulla situazione nel nostro Paese? «Penso che ne vedremo ancora delle belle...». Ancora guai? «Non mi riferisco a fatti nuovi, ma ad altre rivelazioni dalle inchieste già in corso». E la situazione attuale? «Le cose sono migliorate, negli ultimi anni. Parlo dell’Italia, ma anche di tanti altri Paesi che avevano vissuto esperienze di corruzione a margine dello sport, soprattutto del calcio. C’è una nuova consapevolezza. E da più parti si stanno facendo sforzi enormi nel combattere questa battaglia. In Italia si è fatto abbastanza? «Si può sempre fare di più in qualunque campo. Ma se penso agli sforzi del Ministero del-l’Interno, che ha varato Uiss e Giss, rispettivamente unità e gruppo di lavoro con componenti provenienti da tutte le forze di polizia, autorità sportive, i monopoli e altre realtà che si occupano di coordinamento, controllo e indagini, o di alcune Leghe che si stanno dando da fare con progetti interessanti, credo siano stati fatti concreti passi in avanti». L’Uefa sta ottenendo successi importanti (arresti in Lettonia, per partite combinate nei preliminari di Europa League): collaborate anche con Platini? «Certo. La Uefa è per noi un partner strategico. Anche se lavora di più con Europol, per motivi di competenza territoriale». In cosa consiste il programma congiunto Fifa-Interpol? «È un progetto che guarda soprattutto alla prevenzione, all’educazione, all’informazione. Insieme, teniamo workshop e training in ogni angolo del mondo: penso sia la strada giusta. Anche l’Italia sostiene questo progetto». Non c’è bisogno anche di indagini e repressione? «Non c’è dubbio: quello è il secondo passo. Ma con una buona prevenzione speriamo di diminuire le azioni repressive». Che spetta a Interpol? «In realtà l’Interpol ha poteri di coordinamento e sostegno delle polizie degli Stati membri, com’è accaduto mesi fa quando abbiamo coordinato sei Paesi asiatici in una serie di raid volti a smantellare una rete di bookmaker illegali. Nell’occasione sono state arrestate 1.422 persone e sequestrati più di 11 milioni di dollari. Possiamo, però, allertare le polizie dei vari Paesi, quando siamo in possesso di informazioni importanti». E le polizie collaborano? «Normalmente si. Comunque le indagini spettano a loro». Capita che non ne facciano? «Può succedere, certo. Ricordo che qualche volta non ci hanno nemmeno risposto ma si tratta di Paesi con grossi problemi interni. Anche se non lo dicono formalmente ti fanno capire che hanno ben altro a cui pensare. È così dove la corruzione è a livelli massimali e le questioni ad essa legate sono più rilevanti che non il match-fixing nello sport». Dove? «Un po’ in tutti i continenti. L’Asia, per esempio, è una zona difficile, ma anche alcuni zone dell’Africa e del Sud America. La Fifa sta facendo tanto ma non è facile, visto che in certe federazioni calcistiche il suo intervento non sempre è ben visto». Ci sono di mezzo organizzazioni criminali importanti? «Certo. La manipolazione delle partite di calcio e le scommesse si sono rivelate un nuovo business per la criminalità organizzata. Sono una nuova frontiera del crimine. Pensi a quanta importanza è stata data a Dan Tan, il cittadino di Singapore che ha operato in mezzo mondo inquinando il calcio: ma lui non è che uno dei tanti, la punta di un iceberg, alle sue spalle ci sono ricchissimi finanziatori, appartenenti alle più temibili organizzazioni criminali dell’Estremo Oriente». Una battaglia dura, quindi: la si può vincere? «Il match-fixing è una piaga, come lo può essere la droga o altro. Certe malattie è impossibile debellarle del tutto. Il nostro obiettivo è fare il massimo, fin dove riusciremo ad arrivare».
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