mercoledì 2 settembre 2015
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Albert Camus sosteneva di aver imparato dal calcio tutto quello che sapeva della vita. Ma quello che sappiamo del calcio in quale vita l’abbiamo imparato? Mi faccio questa domanda ripensando alle scelte (irrazionali ma mai casuali) che da bambino mi hanno portato dritto dritto verso certi singolari giocatori e verso una squadra, la Lazio, che solo in seguito avrei scoperto così simile a me nella sua vocazione minoritaria, epica e intimamente autolesionista. Del resto l’individuazione dei propri miti (almeno quando non viene influenzata da padri troppo invadenti) è stata, per un’intera generazione di maschi, la prima scelta autonoma della vita. Il pantheon calcistico della propria infanzia rivela, meglio del profilo psico-attitudinale di un pedagogista, archetipi e immaginari che saranno alla base della nostra personalità. La passione per il calcio è sempre stato un modo per immaginare il mondo, ma anche per immaginare la vita. Nei baffetti di Mazzola, nella cotonatura di Rivera e nella mascella squadrata di Riva, per citare tre must della mia infanzia, io vedevo altrettanti modi di esistere, di comportarsi, di pensare. E se alla fine, tra tutti, elessi a mito Luciano Re Cecconi, un mediano umile e nello stesso tempo fiero, malinconico e nello stesso tempo allegro, saggio e nello stesso tempo incosciente, una ragione c’è, e la ragione sta in quello che volevo essere, e che - in qualche modo - sono diventato. Chiunque abbia vagamente sentito parlare di Freud, però, sa benissimo che ogni personalità, nella sua formazione, attinge non solo a ciò che riconosce come suo, ma anche a ombre che lo atterriscono, e che nel terrore lo affascinano.

Francisco Marinho, terzino del Brasile negli anni 70, morto lo scorso 2 giugno.
La teoria del doppio non risparmia nemmeno la mitografia calcistica, e così mi basta voltare la figurina di Luciano Re Cecconi per trovarne un’altra, somigliante e opposta quanto basta. Questo doppio si chiama Francisco das Chagas Marinho, più noto ai cultori del calcio anni Settanta come Francisco Marinho. Biondo e maratoneta come Re Cecconi, si direbbe a prima vista. Ma mentre il biondo del mediano della Lazio appare genuinamente lombardo, in quello del terzino sinistro della Seleçao che arrivò quarto ai mondiali di Monaco si avverte un riverbero inquietante, come se fosse uscito da Candido Godoi, la sperduta cittadina brasiliana dove il dottor Mengele si ritirò in incognito per applicare agli indigeni locali la sua ambizione di creare una razza ariana. Anche l’instancabile corsa, che in teoria omologa entrambi a giocatori di fascia, è un movimento identico di senso contrario: Re Cecconi, partendo dalla posizione di centrocampista laterale, correva continuamente all’indietro in soccorso della propria retroguardia; Francisco Marinho, in teoria un difensore, si sganciava con tale spregiudicatezza che, durante la semifinale mondiale persa nel 1974 con la Polonia, fu aggredito verbalmente (e quasi fisicamente) dal portiere Emerson Leao, esasperato dalla disinvoltura con cui Marinho abbandonava la marcatura di Lato. In quei mondiali, io aspettavo speranzoso (ma via via sempre più deluso) che il Ct Ferruccio Valcareggi si decidesse a irrorare un centrocampo esangue con la linfa di Re Cecconi, relegato in panchina nonostante lo scudetto conquistato un mese prima con la Lazio, e intanto assistevo perturbato (altra categoria freudiana che caratterizzò la mia scoperta dell’immaturità - scoperta che in effetti feci solo maturando) alle scorribande del diablo louro, il diavolo biondo, come i tifosi del Botafogo avevano soprannominato il loro beniamino: vale la pena segnalare che quelli della Lazio ricordano spesso Re Cecconi come l’angelo biondo? Quando, pochi anni dopo, lessi il Giovane Holden, le facce che attribuii al bambino responsabile impegnato a vigilare che nessuno precipiti nel burrone e a quello incosciente che pensa solo a giocare rischiando di cadervi, avevano le inconfondibili sembianze di Luciano Re Cecconi e di Francisco Marinho. Dopo i mondiali, seguii Re Cecconi passo passo, perfezionando un processo di identificazione che mi voleva ragazzino coscienzioso, leale e altruista proprio come lui. Ma da lontano - una lontananza che solo in parte era dovuta al fatto che giocasse in Brasile - continuai a seguire affascinanto quel teppista di Francisco Marinho. Venni così a sapere che cambiava una fidanzata al giorno, che agli allenamenti preferiva sedute dal visagista e set cinematografici, e che ogni lunedì, dopo la partita, affittava un aereo privato per andare a sperperare i suoi lauti guadagni nei casinò legalizzati dell’Uruguay. Se alle notizie si accompagnava una foto, spesso ritraeva Marinho, anziché con la casacca verdeoro della nazionale, in tipiche mise anni settanta - pantaloni a zampa d’elefante, maglioncini a V attillati e basette alla Ringo Starr - che ricordavano terribilmente i ragazzi di vita che incrociavo a Tiburtino III: come facevo con loro, anche quando incrociavo gli articoli su Francisco Marinho sgattaiolavo sull’altro marciapiede, ma poi li piazzavo al centro del mio immaginario e continuavo a guardarli di sottecchi. Mi ero appena convinto che il diablo louro non sarebbe sopravvissuto al suo stile di vita, che Luciano Re Cecconi - il saggio angelo biondo - fu ucciso, pare per uno scherzo equivoco, da un gioielliere del rispettabile quartiere Fleming. Il giorno dei suoi funerali, intorno alle 22, la Rai trasmise un breve spot nel quale Francisco Marinho, probabilmente reduce da una notte brava a base di prostitute creole e chemin de fer, si umettava le guance con il Brut Fabergè. Fino a quel momento, della vita, avevo capito che arriva a destinazione chi va piano e sta a destra, mentre chi sorpassa a cento all’ora si schianta contro un muro. Mi toccò azzerare anche quelle vaghe convinzioni. Se il catcher in the rye poteva scivolare e cadere nel dirupo al posto degli altri bambini, c’era qualcosa che andava registrato. Francisco Marinho, che a diciott’anni aveva umiliato Pelè con un sombrero, barattò l’oro del suo talento con una valigia piena di dollari e, a soli 27 anni, seguì o’rey al Cosmos di New York. Lì, tra i grattacieli, persi di vista lui e quello strano bisogno che hanno i bambini di specchiarsi nei grandi: arriva per tutti il momento di specchiare se stessi (e lì cominciano i dolori).Poi, il 2 giugno del 2014, esattamente quarant’anni dopo aver colorato con i suoi braccialetti e i suoi capelli biondi lo schermo in bianco e nero su cui l’avevo visto correre, tirare (e litigare con Leao) in Brasile-Polonia, aprii il giornale e appresi che Francisco Marinho era morto il giorno prima, povero, alcolizzato, cardiopatico e con 13 figli riconosciuti, a pochi chilometri dalle spiagge del Paraiba, dove passava il tempo suonando la chitarra e affittando auto 4X4 ai turisti di passaggio. Su internet c’era anche una foto di com’era diventato: assomigliava terribilmente a una mia ottuagenaria zia di Taranto, se solo si fosse tinta i capelli di giallo paglierino. Fu scontato, allora tirare fuori dalla tasca sempre la stessa figurina: da un lato ero per sempre giovane, allegro e sorridente fino alla morte, e dall’altra invecchiato, triste e malato per tutta la vita. Ma alla fine ero sempre io. O meglio, erano sempre loro: Luciano Re Cecconi e Francisco Marinho.  
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