venerdì 22 luglio 2016
Inghilterra, quella finale in giallo
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La regina d’Inghilterra non era Pelè, Baglioni permettendo. Eppure era vestita di giallo, come la nazionale del Brasile, il 30 luglio di 50 anni fa quando, sulle tribune dello stadio di Wembley, fu lei a consegnare la Coppa Rimet ad un suo suddito, il capitano inglese Bobby Moore. Allora come oggi, la regina di Inghilterra era Elisabetta II; da allora ad oggi, al contrario, la nazionale dei Tre Leoni non ha mai più vinto un Mondiale. E, per dirla tutta, nemmeno un Europeo: proprio così, i “maestri inglesi”, quelli che il calcio l’hanno inventato e guardano tutti dall’alto, in cattedra sono saliti una sola volta e celebrano, alla fine del mese, cinquant’anni in cui il loro football ha visto di tutto. Tutto, tranne una vittoria della nazionale.

 

Eppure l’Inghilterra può vantare da vent’anni il campionato – la Premier League – mediaticamente più esposto e di conseguenza attraente del pianeta, alcune delle società più ricche e vincenti del mondo, stadi come salotti e una storia che ha visto spesso i suoi club dominare nelle coppe europee anche in periodi meno opulenti per il movimento. Né le sono mancati campioni e fuoriclasse, da allora: il due volte pallone d’oro Kevin Keegan, un portiere come Peter Shilton, bomber del calibro di Gary Lineker e Alan Shearer, poi i vari Beckham, Lampard, Terry, Rooney e Gerrard, le geometrie raffinate di Hoddle o quelle geniali di Gascoigne. Non fosse per il bronzo all’Europeo del 1968, figlio dell’onda lunga del trionfo, gli inglesi non sono però mai tornati sul podio, figurarsi alla vittoria, in un grande torneo.

 

Così l’orologio della memoria resta fermo a quella data lontana nel tempo. 30 luglio 1966, appunto, Inghilterra contro Germania Ovest, perché quello era un altro mondo e i punti cardinali spiegavano la geopolitica del tempo; eccola, la finale del primo torneo iridato giocato nella culla del calcio. Mai gli inglesi erano andati oltre i quarti di finale in un Mondiale, e in fondo mai avevano amato la manifestazione, perché i maestri non se la giocano con gli allievi: questo pensavano, anche quando con spocchia, sedici anni prima, avevano preso parte al torneo per la prima volta, perdendo addirittura con gli Stati Uniti. Ma nei Mondiali di casa i favoriti erano loro, i ragazzi di Alf Ramsey, i vari Gordon Banks, Bobby Moore, Nobby Stiles, Bobby e Jack Charlton, Alan Ball, Roger Hunt e Goeffry Hurst. E il compito lo stavano svolgendo egregiamente: primo posto nel gruppo A, eliminazione dell’Argentina ai quarti di finale – in realtà, non senza polemiche arbitrali per l’ingiusta e contestatissima espulsione di Rattin – e del Portogallo di Eusebio e Colunha in semifinale.

 

Dall’altra parte del tabellone all’ultimo atto arriva la Germania Ovest del ventenne Franz Beckenbauer, di Helmut Haller e Wolfgang Overath, di capitan Uwe Seeler e del ct Helmut Schön. Wembley aspetta con fiducia, il destino pare scritto. Solo che i tedeschi occidentali ce la mettono tutta per cambiare il finale, prima con il vantaggio siglato da Haller dopo 12 minuti, infine quando, a un minuto dal novantesimo, Wolfgang Weber neutralizza con il gol del 2-2 le reti con cui Hurst e Peters avevano ribaltato il risultato, portando tutti ai supplementari. Senza fantasia, questi tedeschi, perché anche quattro anni più tardi, nel Mondiale messicano, sarà Schnellinger a portare ai supplementari, con una rete a tempo quasi scaduto, la semifinale tra Italia e Germania Ovest, quella che diventerà la “partita del secolo”. Senza fantasia anche nell’epilogo: tirarla per le lunghe per poi perderla, come accadde in entrambi i casi. Ma se nel 1970 il demiurgo della sconfitta tedesca ha il volto abatino di un fuoriclasse come Gianni Rivera, quello del 1966 ha il profilo saraceno di Tofik Bakhramov, un omone di quarant’anni dai capelli grigi e dai baffi nerissimi.

 

È lui l’uomo in più degli inglesi, di quelle maglie rosse che alla fine alzeranno la Rimet al cielo, non foss’altro che lui veste una giacchetta nera: è uno dei guardalinee dell’incontro. È lui the russian linesman, “il guardalinee russo” entrato nell’immaginario collettivo britannico, e poco importa che fosse azero di nascita ed etnia, perché a quell’epoca e- ra la Grande Madre Russia ad identificare per sineddoche l’Unione Sovietica, e così i sovietici passavano tutti per russi, pur non essendolo. Bakhramov, già ufficiale dell’Armata Rossa, era considerato uno dei più grandi arbitri del tempo e, per questo, venne scelto nella composizione della terna assieme al direttore di gara svizzero Dienst e all’altro guardalinee, il cecoslovacco Galba. Sono da poco passate le cinque di quel pomeriggio londinese quando the russian linesman abbandona l’anonimato per diventare immortale, all’undicesimo minuto del primo tempo supplementare. Tutto in pochi secondi: da destra Ball centra il pallone in area, Hurst aggancia e tira.

 

Traversa, rimbalzo a terra. Dentro o fuori? È ancora oggi l’icona dei gol fantasma. Ma Tofik Bakhramov non ebbe dubbi e, quando il dubbioso arbitro Dienst si diresse verso di lui per chiedergli cosa avesse visto dalla sua posizione, tutt’altro che perfetta, il conciliabolo enfatico e teatrale – consumato a gesti, dal momento che i due non parlavano una lingua comune – partorì la sentenza, generata proprio dal guardalinee: gol, 3-2. Finì poi 4-2 (segnò ancora Hurst all’ultimo minuto), ma la rete decisiva fu quel pallone forse mai entrato. Scrisse il giornalista Jonathan Wilson, in Behind the curtain, che a Bakhramov, nel 1993 sul letto di morte, venne chiesto il motivo di quella ferma presa di posizione: «Stalingrado», sarebbe stata la sua risposta. Stalingrado, fame e macerie sotto i mortai, e migliaia di morti soprattutto fra il luglio del 1942 e il febbraio del 1943.

 

Non perché Bakhramov vi avesse preso parte, ma perché fu evento epocale nella storia dell’Armata Rossa. Un aneddoto improbabile, ma sufficiente per alimentare la leggenda dell’unico trionfo calcistico dell’Inghilterra. Quando Sua Maestà la regina, premiando capitan Bobby Moore, vestiva i colori di Pelé.

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