venerdì 2 settembre 2016
Facchetti, il “nostro” Giacinto
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Quando parli di Meazza e Mazzola, il tifoso si toglie il cappello, ma se gli parli di Giacinto Facchetti, allora l’interista – e l’intero popolo degli stadi – si commuove. E non c’è bisogno di fare la conta dei titoli vinti con l’Inter (i 4 scudetti, le due Coppe dei Campioni e le due Intercontinentali, dal 1962 al ’71) e con la maglia della Nazionale (campione d’Europa nel 1968 e vicecampione del mondo a Messico ’70) per tracciare il profilo del monumento sportivo che è stato “Giacinto Magno”. Facchetti rimane uno dei rari esempi nella storia del calcio in cui la figura del campione coincide perfettamente con quella dell’uomo, del padre di famiglia e del marito di Giovanna. La ragazza conosciuta «cinquantacinque anni fa», dice la signora Facchetti: «Avevo 18 anni e a casa c’era bisogno di soldi, perciò lavoravo già da impiegata. Tutta la settimana facevo la pendolare da Spino d’Adda a Milano e l’unico svago, al sabato o alla domenica, erano i quattro salti alla balera di Rivolta d’Adda».

Ed è lì che avvenne il fatidico incontro con lo «statuario» Giacinto. «Accompagnava le sue tre sorelle. Era l’unico uomo di casa, il papà era morto che aveva 17 anni. Un amico della mia compagnia, interista, gli andò incontro per chiedere l’autografo dicendomi stupito: “Ma come Giovanna, non sai chi è quello? È il Facchetti...”. In cambio della firma su un pezzo di carta, Giacinto, credo lottando molto con la sua timidezza, gli chiese di conoscermi. Ma passarono un paio di mesi prima del nostro primo incontro».

Sorride Giovanna ripensando a un appuntamento sfumato e che si trasformò in un autentico inseguimento. «Ci scrivemmo una lettera, all’epoca si usava così, per concordare ora e luogo dell’incontro. Ricordo che il giorno dell’appuntamento era una di quelle giornate di nebbia milanese che si tagliava con il coltello. Arrivata alla fermata dei bus di piazza Grandi, feci finta di non vederlo e proseguii fino a casa. Giacinto allora venne a Spino d’Adda, ma non osò entrare in casa mia, anche perchè chissà quale film si era fatto su mio fratello che era juventino e quindi secondo lui non avrebbe potuto mica tollerare uno spasimante della sorella che per giunta giocava nell’Inter...».

E invece dopo una lettera di scuse «per chiarire l’equivoco», tra un incontro fugace e l’altro «durante le pause degli allenamenti o dopo le partite» e le tante telefonate dai ritiri «dalle cabine pubbliche», quel ragazzo destinato a diventare una bandiera del calcio nazionale divenne il marito di Giovanna, il padre dei loro quattro figli ( Vera, Barbara, Gianfelice e Luca) e il cognato di Giovanni «che cambiò casacca e diventò interista, ma forse non era mai stato veramente juventino – sorride la signora Facchetti –. Giovanni arganizzava le “gite” per andare a seguire Giacinto, ma io allo stadio ci sarò andata al massimo cinque volte, di cui tre in trasferta quando giocava la Nazionale perché poi si tornava a casa insieme». 

 Matrimonio all’italiana, quando ancora i calciatori sposavano le belle ragazze del popolo e non inseguivano le veline per sfamare i mercanti del gossip. «Le uniche foto nostre sono quelle con i figli o mentre inseguiamo il treno per la trasferta con la Nazionale, guardi che bella questa... – mostra lo scatto che pubblichiamo – Giacinto di calcio in casa non parlava quasi mai. Magari, di tanto in tanto, se aveva qualche nodo da sciogliere si sfogava, ma era un attimo. Aveva un rapporto speciale con il “Mago” Helenio Herrera, ma anche lì era una cosa tutta sua, riservata. Il gesto di Herrera di lasciargli in eredità i suoi “taccuini” dice tutto sulla reciproca ammirazione. 

 Anche Giacinto poi ha scritto dei suoi quaderni e lì dentro c’è tutta la sua passione per il calcio». Una passione consacrata all’Inter morattiana, quella di papà Angelo da giocatore e poi la “pazza Inter” del figlio Massimo che lo volle presidente. «Con i Moratti il clima era famigliare. Giacinto da ex calciatore frequentava Massimo, si divertivano a organizzare le partitelle sul campo della vil- la di Imbersago e poi l’ha voluto al suo fianco per dirigere l’Inter fino all’ultimo». 

 Da presidente Facchetti ha vissuto gli anni della costruzione dell’Inter tricolore di Mancini e poi quella del “triplete” di Mourinho, ma in mezzo ci sono stati quel 5 maggio (2002) dello scudetto perso all’Olimpico e i soprusi di Calciopoli. «Sono tutte cose che gli hanno dato dolore, ma secondo la sua regola, gioie e dispiaceri dovevano rimanere celati dentro di sè per continuare a vivere nella normalità». Il silenzio e la normalità, le altre due regole facchettiane, sposate a pieno anche da Giovanna. «Una volta Giacinto mi disse: “Non ce l’ho fatta a sposare una normale” – sorride – Fu quando a 59 anni lessi una pagina del Corriere e mi sentii chiamata a partecipare alla Marathon des Sables. Se l’avessi detto prima, sapevo che il suo potere su di me era talmente forte che avrei finito per rinunciare.

Il giorno che diedi l’annuncio alla famiglia Giacinto ci rimase male, ma poi si è arreso subito e mi ha accompagnata ». Una vita in simbiosi, con angoli intimamente privati come quelli dedicati alla fede. «Alla Santa Messa qui nella chiesa di Treviglio Giacinto andava sempre da solo. Era un suo rito dai tempi dei ritiri con l’Inter. La fede lo ha sempre aiutato anche nei momenti più duri. L’ho visto piangere una sola volta, quando i medici gli hanno comunicato della malattia. Ma non ha mai smesso di credere e gli ultimi giorni in ospedale chiese di poter parlare con un sacerdote». Il 4 settembre di dieci anni fa Giacinto è volato via per sempre, ma quaggiù ha lasciato tanti segni del suo passaggio.

«L’affetto più grande nei suoi confronti lo provo ogni volta che mi invitano in Sicilia, e questo perché Giacinto, specie da dirigente, andava volentieri a incontrare quei tifosi interisti che vivevano lontano da Milano e per i quali venire a San Siro sapeva bene che era un grosso sacrificio, anche economico. Noi siamo rimasti figli del popolo, non abbiamo mai dimenticato le nostre radici e per questo la gente continua a sentire Facchetti come “uno di loro” che ce l’ha fatta». Un altro Facchetti, dopo Luca che allena le giovanili dell’Inter, scende in campo. «È il figlio di Vera, Mattia Maggioni Facchetti, ha 12 anni e per ora gioca solo per divertimento. Io quello che posso fare con i miei nipoti è ricordargli che il loro nonno a 17 anni prendeva il treno per andare a scuola, al pomeriggio si allenava e alla sera studiava.

Se Giacinto è arrivato dove è arrivato è stato perché oltre al talento c’ha messo sempre dentro quella bella parola che si chiama “sacrificio”». Ma forse, sacrificarsi ancora per questo calcio di adesso sarebbe dura anche per un campione come Facchetti. «Il sistema attuale non gli piacerebbe, si era già disamorato un po’ anche quando lo viveva da presidente – conclude Giovanna –. Giacinto era molto legato a quello che era stato il suo calcio. Era un nostalgico e quindi un gran romantico. A volte con i miei figli si ride quando ripensiamo alle feste o ai compleanni in cui Giacinto puntuale si presentava dicendo: “Il regalo non ce l’ho, poi arriverà, ma intanto prendete questo...”. Era un biglietto scritto con cura in cui a ognuno di noi ricordava quanto ci amasse. Quell’amore è ancora qui, in questa casa, e la sua assenza la viviamo come fosse l’attesa di un suo ritorno dopo una trasferta con l’Inter».

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