mercoledì 6 gennaio 2016
Parla il guru americano del basket che in Italia ha trionfato negli anni Settanta e Ottanta alla guida di Bologna e Milano. «Ero basso e scarso come giocatore. Ma il coach che mi escluse mi disse che sarei diventato un grande allenatore».
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Se questa intervista potesse parlare riconoscereste subito il suo inconfondibile accento americano: «Okay?», direbbe col suo fulminante intercalare. Ma Daniel Lowell (“Dan”) Peterson che sabato taglia il traguardo degli 80 anni, prima di spopolare in tv nelle vesti di commentatore sportivo e testimonial pubblicitario, è stato tra gli allenatori di basket “il numero 1” per usare la sua proverbiale sentenza. Originario di Evanston, nell’Illinois, a nord di Chicago, dopo una lunga cavalcata nei college statunitensi è diventato coach della nazionale cilena. Nel 1973 l’approdo in Italia, prima alla Virtus Bologna, con cui vinse Coppa Italia (1974) e scudetto (1976). Poi dal 1978 al 1987, all’Olimpia Milano dove il bottino fu più ricco: 4 scudetti, 2 Coppe Italia, una Coppa Korac e una Coppa dei Campioni. Un ritiro forse prematuro nel 1987 e nel 2011, sebbene per pochi mesi, un clamoroso ritorno all’Olimpia dopo 23 anni di inattività. A testimonianza che Dan Peterson non ha mai smesso di sentirsi allenatore. È vero che anche sua moglie la chiama ancora coach? «Oh yes. Del resto ho cominciato ad allenare a 15 anni alla «Gioventù cristiana», la Young Men’s Christian Association ( Ymca). Ero scarso a giocare a basket, piccolo di statura, e fui tagliato dalla squadra del liceo. Ma lo stesso coach che mi escluse mi disse che sarei diventato un grande allenatore. Ebbi la fortuna di avere subito in squadra giocatori di talento e collezionavo solo vittorie. Pensai allora che fare l’allenatore sarebbe stato facile. Mi sbagliavo. Bisogna essere veri educatori: oggi i ragazzi (per fortuna non tutti) pensano che “la pappa sia già pronta”. E invece bisogna fare tanti sacrifici. Io devo però ringraziare i miei genitori». In che modo è stata decisiva la sua famiglia? «Ho sempre ammirato la loro unione pur essendo per carattere agli antipodi. Si sposarono nel mezzo della Grande depressione mondiale e per tirar su la famiglia mio padre lavorava anche 16 ore al giorno: sia come poliziotto che come guardia in banca. Lui che era anche istruttore di nuoto mi ha dato la disciplina e l’amore per lo sport. Da mia madre invece che era un’artista ho appreso la creatività e ancora oggi mi diverto a disegnare». Perché si iscrisse alla «Gioventù Cristiana »? «È un luogo fantastico per fare sport e ti insegna ad essere responsabile verso i più piccoli. È tuttora un posto che amo, una sorta di oratorio italiano. Poi certo, sono cristiano, protestante anche se non protesto, e ogni dieci anni ho preso l’abitudine di leggere la Bibbia da cima a fondo. Mi ci vuole un mese, sfruttando soprattutto la notte. Quanta saggezza racchiusa in quei testi scritti migliaia di anni fa. Mi colpisce la leadership di Gesù: magari i governanti oggi avessero i suoi principi. Lui sapeva leggere il cuore dell’uomo. Ma c’è un passo biblico che amo più di tutti». Quale? «Davide contro Golia. Per me che sono basso il coraggio di Davide è stato esemplare. Non è stato facile all’inizio: il basket mi piaceva, ma il canestro mi sembrava più vicino alla luna che alla mia testa. Ero piccolo e magro magro. Ma è stata la molla che mi ha spinto a studiare e impegnarmi di più per diventare un bravo coach». Chi è stato il suo modello cestistico? Il più grande allenatore di basket della storia: John Wooden. Sono stato sempre allergico a tanti schemi, la semplicità è il mio stile. “Mettiamo il cuore in campo senza vedere il tabellone”, ho sempre ripetuto ai miei giocatori. La partita si vince così: “Canestri, botte e sorrisi”. L’umorismo e l’auto-ironia sono una componente importante». In Italia ha legato il suo nome a due società storiche della pallacanestro. «Sono ovviamente affezionato e grato a entrambe. Scelsi l’Italia proprio perché Bologna mi chiamò. Ma certo all’Olimpia sono stato più anni e anche oggi lavoro con loro. Abbiamo in comune 80 anni di storia e qualcuno dice che la società sia stata fondata proprio il 9 gennaio 1936... A Milano mi legano poi i ricordi più belli come il grande slam del 1987 quando vincemmo lo scudetto contro Caserta dopo aver vinto la Coppa Italia e la Coppa dei Campioni. E poi all’Olimpia ho avuto i più grandi giocatori che abbia mai allenato: Mike D’Antoni, Dino Meneghin, Bob McAdoo». Dica la verità, se la richiamassero tornerebbe come nel 2011. «Sì ma oggi i tempi son cambiati, troppi agenti e il potere mediadico del web è troppo forte. Sono già consulente dell’Olimpia e sono molto contento di come stanno lavorando, con un’attenzione mirata anche nelle scuole. Hanno venduto più di 3mila abbonamenti e ogni partita ci sono 9-10 mila spettatori. Spero proprio che vincano il campionato sarebbe il regalo più bello per i miei 80 anni». Ma il basket italiano, sia a livello di club che di nazionale, stenta a decollare. «Ci vuole pazienza, veniamo da una crisi economica e tecnica. Non credo poi che il problema siano i troppi stranieri, ma il fatto che si sfornano pochi italiani bravi. Quando sono arrivato io c’erano 9 italiani su 10 in squadra. Oggi invece è impossibile. Oltre ai Gallinari e ai Belinelli abbiamo talenti come Achille Polonara, Della Valle o Alessandro Gentile. Ma non bastano». Negli anni Ottanta ha fatto conoscere l’Nba agli italiani portando in tv un linguaggio tutto suo. «Quando sono arrivato nel vostro Paese mi sono sforzato di parlare molto bene l’italiano, ma in televisione mi chiedevano l’accento americano e alla fine mi sono adattato. La differenza però la fa la pallacanestro. Quando anche oggi vedi superstar come Steph Curry, Lebron James o Kevin Durant…Come fai a non innamorarti di questo sport?». Curry può diventare il nuovo Jordan? «Sì ma Jordan “per me è il numero 1” di tutti i tempi. Oggi c’è più atletismo, ma il basket rimane “un balletto sul parquet”. Ha un’eleganza che gli altri sport non possono replicare». Lei ama ripetere che ognuno di noi ha una missione da compiere. Qual è la sua? «Dare il massimo e provarci anche a costo di non riuscire. C’è un episodio legato a mio padre che mi ha segnato. Poliziotto e nuotatore, lo chiamavano spesso per casi di annegamento. Ha salvato la vita a sei persone. Ma una volta non ce la fece. Si trattava di un bambino di 10 anni che annegò nel lago Michigan. Mio padre lavorò 7 ore di fila e fu poi lui stesso ricoverato per giorni in ospedale per crampi muscolari. Aveva dato tutto come se fosse stato figlio suo. Il valore della vita è inestimabile ed è uno degli insegnamenti più profondi che mi porto dentro» . 
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