giovedì 26 novembre 2015
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Cose dell’altro mondo. Al di là dell’Oceano c’è una squadra che sa solo vincere. I Golden State Warriors, i “guerrieri” della baia di San Francisco (nati nel 1946 a Philadelphia e dal 1962 residenti a Oakland), già campioni in carica, entrano nel libro dei record dell’Nba inanellando 16 vittorie su 16 partite giocate quest’anno. Gli ultimi ad essere travolti gli impalpabili Los Angeles Lakers di Kobe Bryant (111-77). Mai nessuna squadra del campionato professionistico americano ha avuto un inizio così folgorante come quello dei Warriors. E nemmeno leggende della pallacanestro a stelle e strisce come Magic Johnson, Larry Bird o Kareem Abdul-Jabbar, possono vantare questo primato. Neanche sua maestà Michael Jordan con i Chicago Bulls. C’è riuscito invece Stephen Curry che dell’orchestra perfetta dei Warriors è il funambolico trascinatore, il nuovo Messi del parquet, l’uomo che l’anno scorso ha riportato dopo 40 anni i “guerrieri” sul tetto dell’Nba. Il quarto titolo in settant’anni di storia dell’unica franchigia - con i Boston Celtics e i New York Knicks - che ha preso parte a tutti i campionati.  E dire che la storia di Curry non è proprio quella di un predestinato. Nato ad Akron nel 1988 ha dovuto sudare parecchio per smentire i suoi detrattori. Alcune prestigiose università gli rifiutarono persino la borsa di studio: erano convinti che non ce l’avrebbe fatta ad imporsi in un basket sempre più muscolare, per via di quel fisico gracile ed esile, alto 191 cm per soli 80 kg, non proprio un gigante per l’Nba. E invece nonostante scetticismi e infortuni, eccolo sbocciare prima con i Davidson Wildcats nel campionato universitario (Ncca) e poi con i Golden State. Giocate da circo e prodezze da videogame fanno ormai parte del suo repertorio e non fanno nemmeno più notizia. I numeri sono spietati: l’anno scorso ha messo a segno 286 tiri da tre, superando il suo stesso primato di 272 “bombe”. La sua meccanica da tiro e la velocità di esecuzione è stata perfino oggetto di studi scientifici per spiegare una parabola impossibile da stoppare e il diluvio di canestri a ogni partita (54 punti il picco massimo contro i New York Knicks nel 2013). Ma il killer dalla faccia da bambino (“baby-faced assassin”) ha svelato la sua arma segreta. L’anno scorso durante la premiazione come miglior giocatore Nba ha detto: «Tutti mi chiedete come faccio a segnare certi canestri, a vedere certe linee di passaggio. È bello vedere la gente che si esalta per il mio gioco, ma la risposta alle loro domande è in Dio. Quello che so fare in campo viene da lui e amo indirizzare la gente verso la fede cristiana». Un dono da condividere per uno prodigo anche di assist: «Do gloria a Dio per i miei talenti e quelli dei miei compagni». Mite e sereno anche quando ripensa agli ostacoli che ha superato: «Tutto accade per un motivo». E con i piedi ben piantati in terra nonostante il clamoroso successo: «So da dove viene il mio talento, da Dio. E io non gioco a basket per fare 30 punti a partita, ma per esserne testimone e condividere la testimonianza. E questa consapevolezza vale molto più di un trofeo». Valori assimilati da uno che alle spalle non la “storiaccia” o le sparatorie nei ghetti, ma la “normalità” di due genitori da sempre molto uniti. Il motto «Love never fails», («La carità non avrà mai fine » nella nostra traduzione della Prima lettera ai Corinzi, 1 Cor 13,8 ) Steph ce l’ha tatuato anche sul polso. Dal padre ex giocatore Nba ha ereditato la passione per il basket e dal legame con la madre si spiega anche il gesto che compie spesso sul parquet: «Mi colpisco il petto e punto al cielo per dire che ho un cuore per Dio. È una cosa che abbiamo trovato con mia madre quando ero all’università. Lo faccio ogni volta che entro in campo per ricordare per chi gioco. La gente deve sapere perché sono chi sono, per il mio Signore e Salvatore». La famiglia è l’altra marcia in più. Sposato con Ayesha Alexander, conosciuta in chiesa da ragazzino, Curry è oggi papà felice e orgoglioso di due bimbe, Riley e Ryan Carson nata pochi mesi fa: «Posso anche segnare 50 punti, ma niente mi fa brillare gli occhi come il sorriso di Riley, la mia bimba». Per la gioia oggi anche dei supporters dei Warriors che sognano di eguagliare e superare il record dei Bulls di Jordan (72 partite vinte su 82 della stagione regolare). Curry non si pone limiti, ma con umiltà continua a guardare in alto. Sulle sue scarpe ha fatto scrivere il suo versetto biblico preferito, tratto dalla lettera ai Filippesi di san Paolo ( Fil 4,13): «I can do all things...», «Tutto posso in Colui che mi dà la forza».
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