mercoledì 7 ottobre 2015
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​Voleva realizzare «un’opera insolita, nuova e grandiosa» ma non ne fece nulla, Giuseppe Verdi. Nonostante questo lavoro occupasse i suoi pensieri fino a tormentarlo già dal 1843, nonostante i suoi temi quali la follia e il rapporto padre-figlia fossero a lui molto cari al punto da disseminarli in tante altre opere, il compositore bussetano su questo progetto non riuscì a scrivere nemmeno una nota. Restò solo un sogno, o un incubo, insieme al libretto scritto da Antonio Somma. Questo melodramma mai nato, mai musicato, mai rappresentato, e sul quale incombeva il grandioso precedente shakespeariano, era il Re Lear. E proprio all’interno di questa incompiutezza si tuffa e si immerge la ricerca scenica, immaginifica, installativa ed espressiva di quella compagine parmense, da venticinque anni in grado di spiazzare col suo teatro sperimentale, che è Lenz Fondazione.I direttori artistici Maria Federica Maestri e Francesco Pititto sono emersi da questo tuffo nella “non-opera” verdiana con una pletora di visioni, una creazione terribilmente “polisegnica” e una certezza ben enunciata dallo stesso Pititto, responsabile della drammaturgia visiva e performativa di questa missione-sfida: «Abbiamo voluto dare forma a un desiderio e vestire un fantasma». In effetti nulla di più logico (se consideriamo che il mondo reale dal punto di vista shakespeariano è fatto di sogni e di niente) e nulla di più concreto per l’ensemble che, nella sua fucina ai margini del centro di Parma, elabora in forma artistica e traduce filosofiche tensioni ed esistenziali inquietudini in fantasmagoriche e oniriche visioni. Di chiaro, immediato, lampante ed inequivocabile c’è solo il titolo di questo progetto, Verdi Re Lear, con cui il Teatro Regio di Parma e il Festival Verdi hanno inaugurato la sezione “Around Verdi” per far incontrare-scontrare la lirica con la sperimentazione più spinta. Questa fusione avrà luogo nello storico spazio post-industriale del Lenz dal 10 al 14 ottobre, ma già la visione privata delle prove regala tutto il suo potenziale espressivo, estetico e magnetico. C’è da premettere che non è uno spettacolo (o meglio «un’installazione», come preferisce definirla Federica Maestri che ha creato anche i costumi) facile e immediato; è un’esperienza che andrebbe dissezionata col bisturi o vissuta lasciandosi inondare dalla poliedricità semiotica che comunque non lesina emozioni. Singolare innanzitutto la modalità della fruizione acutamente pensata per essere in sintonia con un’opera che, in quanto sogno e desiderio incompiuto, non può avere un inizio e una fine: non c’è infatti sviluppo diacronico perché gli spettatori sono delocalizzati in due spazi diversi e simultaneamente assistono a due scene diverse, ognuna di cinquanta minuti, che si ripetono una seconda volta per dare la possibilità al pubblico di cambiare sala, godersi il secondo quadro e ricomporre il ricordo. Originale e impressionante anche il lavoro sulla musica: le arie e i duetti delle opere verdiane (La forza del destino, Nabucco, Il trovatore, Simon Boccanegra, I masnadieri, Otello, Rigoletto, Luisa Miller, Don Carlo, Aida) sono evocati, accennati o restano latenti e soprattutto alimentano e lasciano spazio agli interventi musicali originali del compositore della contemporaneità e quotidianità Robin Rimbaud – in arte Scanner –, in grado con le sue sonorità elettroniche di creare potenti e trascinanti ossimori musicali. Ardue e virtuose anche le performance dei giovani cantanti del conservatorio “Arrigo Boito” di Parma sui quali la coppia Maestri-Pititto, coadiuvata da Donatella Saccardi, ha fatto un mirabile lavoro di sottrazione privandoli non solo di ogni manierismo lirico-recitativo ma anche di ogni appiglio e appoggio musicale: cantano infatti senza accompagnamento, donando con la sola voce inaudite e adamantine sensazioni canore. Un’opera che non c’è non poteva inoltre non avere una trama che non c’è. Della storia del vecchio, empio re Lear che dissennatamente smembra il suo regno tra le figlie pretendendo dichiarazioni d’amore filiale, che si lascia ingannare dalla vuota retorica di due di loro e non riconosce invece la sincerità dell’unica figlia, Cordelia, che non concede nulla all’apparenza della parola, restano solo frammenti e lacerti. Frasi emblematiche che echeggiano, ripetute da voci fuori scena o dal vivo. Un film di immagini domina entrambe le parti, in una delle quali mediante tre velari trasparenti, posti su altrettanti livelli di proiezione, in fondo alla sala, in mezzo e di fronte alle sedute, sui quali giganteggia il corpo accasciato, raggomitolato di un Lear ormai impotente e ferito. Nell’altro quadro oltre alle immancabili inquadrature di volti scrutati e a loro volta scrutatori restano impressi i dieci letti disposti su due file e il dominio di una luce bianca e nera. Da ricordare tra i momenti più incisivi gli interventi di Barbara Voghera, un “fool” la cui corporea espressività dialoga efficacemente con l’immaterialità delle immagini, e Valentina Barbarini, una Cordelia imprigionata nella sua condizione di impotenza che col suo lacerante “niente” esprime tutto. Entrambe sono “attrici sensibili”, storiche presenze della compagnia Lenz da sempre capace di estrapolare e valorizzare la vis artistica insita nelle disabilità psichiche e intellettive. Insomma, uno tsunami di suoni e visioni che la “drammaturga della materia” Federica Maestri si augura lasci un sapore di «pane quotidiano fortemente speziato», o «la vertigine di chi fa un giro su una giostra vorticosa», come afferma il “drammaturgo dell’immagine” Francesco Pititto. Non manca però il rischio di uscirne storditi e inibiti dalle troppe sollecitazioni. Pericolo che fa risuonare gli antichi timori verdiani: «Il Re Lear… così vasto, così intrecciato che sembra impossibile cavarne un melodramma».
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