giovedì 6 novembre 2014
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Un giacimento, un tesoro perso e ritrovato, una vena carsica che scava dentro il ventre profondo dell’America e riemerge, anni dopo, come un diamante grezzo. Da ascoltare e riascoltare. Benvenuti nei Basement Tapes: The Bootleg Series Vol. 11 - sontuoso cofanetto di sei cd con oltre 130 brani e versioni inediti, appena pubblicato dalla Colombia -, benvenuti nel mondo cristallino e torbido allo stesso tempo, nuovo e senza tempo, semplice e labirintico, di mr. Bob Dylan. Una voce. Anzi la voce. Una voce “tagliente” (Sean Wilentz), “graffiante e apparentemente sprezzante, piena, ardente, urgente e poi delicata” (come l’ha descritta uno dei più tenaci “dylaniati”, il critico americano Greil Marcus), una voce di “carta vetrata, arrogante e sdegnosa come nessuna” (secondo Alessandro Carrera). Una voce, anzi no, molte voci, riunite in una, assemblate in una, voci sgominanti, capaci di sciogliere, come dentro una colata, blues, rock e folk, e riconsegnarci un mistero – quello di Bob Dylan - che a dispetto delle stagioni rimane ancora tutto da esplorare. Perché “Dylan ha cessato da tempo di essere un semplice artista. Ormai è una geografia, un universo semiotico, un’intera cultura concentrata in un singolo performer, un’infinita partita a scacchi tra la parola e la voce” (parola di Alessandro Carrera).
L’enciclopedia sonora dell’America Con “The Bootleg Series Vol. 11 – sorta di enciclopedia sonora dell’America - si chiude il cerchio. Tutte le registrazioni di quella stagione irripetibile della musica a stelle e strisce sono ora alla portata degli orecchi di tutti. La storia è nota. Dylan rovina con la sua moto su una strada dell’Oregon, non lontano da Woodstock. Siamo nel 1966. Le voci impazzano (e impazziscono). Dylan è morto, Dylan è annientato dalle droghe, Dylan sta disintossicandosi. Bob Dylan invece è vivo e vegeto anche se costretto a rintanarsi in casa per rimettersi. Lo raggiungono gli amici/compagni della Band. Nascono così le registrazioni della cantina, entrate di prepotenza nella leggenda. Per il menestrello – ha scritto Paolo Vites – il divertimento era tutto lì: registrare “in modo informale, con un gruppo di amici nel rifugio sicuro in mezzo ai boschi, lontano dagli asettici studi di registrazione di New York, da tecnici fastidiosi, da produttori “in pantofole” come lui stesso li avrebbe definiti.” La rivoluzione di Dylan Chi è il Dylan che riemerge da questi nastri? Qualcuno che aveva deciso di “buttarsi indietro nel tempo” (Vites), “un profeta riluttante”, ha scritto Sasha Frere-Jones sul The New Yorker, qualcuno che cercava (affannosamente?) di demolire l’immagine che gli si era appiccicata addosso, come una seconda soffocante pelle. Quella stessa aurea che Dylan aveva sfidato al Newport Folk festival presentandosi con tanto di chitarra elettrica e guadagnandosi l’appellativo di “Giuda” da parte di fan inviperiti. Era insomma il Dylan pronto a consumare quella che Ellen Willis ha definito una “rivoluzione”: “come compositore, interprete e soprattutto autore di testi, Dylan ha operato una rivoluzione. E’ riuscito a espandere l’idioma folk trasformandolo in un linguaggio ricco e simbolico, ha innestato sottigliezze letterarie e filosofiche nelle canzoni di protesta, ha rivitalizzato la visione folk del mondo rifiutando ogni sentimentalismo proletario ed etnico, e ha poi distrutto il folk come forma contemporanea, fondendolo con il pop”.
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