venerdì 10 ottobre 2014
COMMENTA E CONDIVIDI
​È una dama in ermellino Cecilia Bartoli nella copertina di St. Petersburg (Decca). Il colbacco di pelliccia bianca (sintetica) è il viatico ideale, e come di sua consuetudine ironico, per un viaggio attraverso un secolo – e tre zarine – di opera italiana in terra russa. Compagni di slitta sono gli ottimi Barocchisti di Diego Fasolis. In scaletta brani di autori come Cimarosa e Araia, ma anche rivelazioni come Hermann Raupach, di nascita tedesco ma musicalmente italiano. «Una scoperta musicale, per la qualità di queste pagine – dice il mezzosoprano romano – e musicologica: i libri ci dicono che la storia dell’opera in Russia comincia nel 1836 con Glinka e Una vita per lo Zar. Invece abbiamo potuto dimostrare che cento anni prima a San Pietroburgo si faceva opera. Italiana: ma anche in lingua russa». Cecilia Bartoli, una delle ultime vere star della classica (nella serata di gala a Versailles per la presentazione del disco c’erano giornalisti da una ventina di paesi) ne va orgogliosa perché ha effettuato in prima persona le ricerche nella biblioteca del Teatro Mariinskij.Signora Bartoli, cosa vuol dire lavorare su un repertorio del tutto inedito?«Da un lato hai una grande la libertà di interpretazione, dall’altro la responsabilità di riuscire a riportare in vita questa musica reinserendola in repertorio. Grazie a questa riscoperta speriamo che altri seguano questo percorso». Lei canta brani scritti da italiani per un pubblico russo, e in qualche caso anche in lingua russa. Vi trova un colore particolare?«Sì, ed è stata una grande sorpresa. Ad esempio in Sacrificium, progetto dedicato ai castrati del Settecento, avevo incontrato l’Araia italiano e le sue arie virtuosistiche per cantanti come Porporino, Caffarelli, Farinelli... Qui ho scoperto un Araia completamente nuovo, con arie molto più lente, melanconiche, dal carattere più patetico. E così il focus di questo album è diventato la ricerca di questi colori più profondi, davvero da “anima russa”. Probabilmente questi autori hanno cercato di entrare in empatia con un pubblico nuovo, che reagiva molto di più ascoltando certe armonie rispetto ad altre».Tra Sei e Settecento l’Europa era popolata di musicisti italiani. Talenti da esportazione o in fuga?«La storia sembra ripetersi, è vero. Anche oggi in Europa c’è fame di musica italiana. Noi artisti all’estero continuiamo a vivere grazie ai compositori italiani, la loro musica è un’autentica miniera. La vera differenza è che allora l’Italia era una grande fucina di creatività e ora invece i teatri si chiudono».Cosa ne pensa del caso Opera di Roma?«Sono incredula. Io vi sono cresciuta, i miei genitori cantavano nel coro. Io lì ho fatto il mio debutto come pastorello nella Tosca. Questo teatro è stato gestito da politici, persone che non solo non conoscevano la musica ma nemmeno la amavano. Ma quello che mi lascia senza parole è che gli orchestrali siano mandati a casa e l’amministrazione rimane: a fare che?».Da tre anni dirige il Festival di Pentecoste a Salisburgo. Che esperienza è? E se la chiamassero, dirigerebbe un teatro italiano?«Salisburgo mi ha fatto crescere e prendere consapevolezza dei bisogni degli altri musicisti. Mi ha consentito di far conoscere all’estero ancora meglio la musica italiana, come ad esempio il Rossini serio. Richiede un grosso impegno, ma è un festival breve, cosa che mi consente di andare avanti a cantare. Dirigere un teatro in Italia richiederebbe tanto di quel tempo che vorrebbe dire lasciare da parte la carriera. In futuro vedremo. E poi, bisogna vedere quale teatro. La classe politica deve capire che abbiamo bisogno di sostegno, tanto finanziario quanto psicologico. La musica è il nostro patrimonio. E la nostra cura. L’essere umano ne ha bisogno. Si va a teatro e si prendono meno medicine. Dovrebbe passarlo il servizio sanitario nazionale: basta con gli psicofarmaci, andate a teatro!».
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: