giovedì 24 novembre 2011
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I miracoli hanno i loro tempi e i loro luoghi: alcuni accaddero a Milano nel 1950, quando la vecchia Lolotta si diede molto da fare per realizzarli e Vittorio De Sica li raccontò. Oggi, invece, il luogo adatto è il porto francese di Le Havre: silenzi e qualche persona di buon cuore. Ma lì, a Le Havre, nessuno li chiede, i miracoli. Anzi, in pochi ci credono. Però, accade che un bambino, Idrissa, arrivato dal Gabon in un container con altri connazionali, ce la faccia a raggiungere la mamma a Londra grazie a una commovente solidarietà umana (primo miracolo). Contemporaneamente una donna, Arletty – interpretata da un’icona del regista finlandese, Kati Outinen –, si salva da un cancro mortale e torna a casa (secondo miracolo). Sembra un film ottimista, Miracolo a Le Havre, ma sotto sotto Aki Kaurismäki, che lo ha scritto e lo ha diretto toccando l’apice del suo modo minimalista di fare cinema, è pur sempre sconsolato. Infatti – di passaggio a Roma per presentare la pellicola che stasera sarà al Festival di Torino e domani nelle sale italiane – sentenzia: «La situazione del mondo è così disperata che un solo miracolo non è più sufficiente. Ce ne vogliono due».Nel suo film c’è l’urgenza di denunciare un pericolo sociale e morale.Rispondo citando la Costituzione degli Stati Uniti d’America: le persone si rispettino reciprocamente. E aggiungo: la smettano di torturare il pianeta. Le cose devono cambiare e tutto deve partire dalle strade, dalla gente, come accade oggi in certi paesi del mondo.«Quo vadis Idrissa?»: come le è venuto in mente di mettere in bocca a Marcel Marx (notare il cognome, è il bravissimo attore André Wilms) questa prima domanda rivolta al ragazzino di colore?Veramente l’ho sentita come una espressione adatta a quel momento. Forse troverò finalmente chi possa spiegarmi il suo esatto significato.Pastori e lustrascarpe sono gli unici a seguire i precetti del «Discorso della montagna», dice Marcel nel film. Perché?Curioso: so che ci sono, che parlano di amore, ma ci crede che non li ho mai letti? Quando ho scritto questo film, però, ci stavo pensando e l’immagine che mi è venuta in mente è che i pastori sono vicini al loro gregge e i lustrascarpe stanno accovacciati davanti ai loro clienti. Guardano in basso, con umiltà. Come Marta quando, per amore, lava i piedi a Gesù.Lei ha affermato di vergognarsi sempre dei suoi film dopo che li ha fatti e solitamente si rifiuta di parlarne. Eccentrico o umile?I miei film li scrivo, li dirigo, li produco, li monto e spesso disegno anche le scenografie. Conosco bene ogni più piccolo errore che posso aver commesso. Meglio dimenticarli, gli errori. E non rivedere i miei film. Forse potrei, ma soltanto dopo una ventina d’anni.Lei è finlandese, vive in Portogallo e questa volta gira in Francia, la patria degli ideali moderni di libertà, uguaglianza e fraternità: mette in allarme la società per una loro possibile perdita?Intanto, diciamo subito che i francesi dicono di ispirarsi a questi ideali. Mi domando però: la loro politica estera, come quella di tantissimi paesi, li rispecchia ancora? Per me questa politica è veramente l’inferno, perché è dettata dal colonialismo, che non è affatto morto.Ancora una volta i due protagonisti adulti di un suo film, un uomo e una donna, finiscono per guardare in alto: lo facevano in «Nuvole in viaggio», questa volta si fermano a osservare un ciliegio in fiore che si staglia nell’azzurro del cielo. Casualità o metafora?La metafora è sempre assente dai miei film. È una cosa che ho imparato da Luis Buñuel. Lui ha detto: «I miei film non contengono simboli», anche se è un bugiardo, perché ne sono pieni. Invece, i miei personaggi guardano in alto perché altrimenti avremmo di loro un’immagine di persone depresse. E non lo sono. Poi, se guardassero in basso sembrerebbero alla ricerca di una monetina, mentre guardando in alto il loro sguardo è rivolto al Paradiso. Meglio, no?
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