martedì 1 gennaio 2013
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​Le note di agenzia giunte ai giornali il pomeriggio del primo gennaio 2003 erano scarne. «Nella sua residenza di Montemagno in provincia di Lucca è morto il cantautore Giorgio Gaber». Ma furono un piccolo-grande choc per tanti, visto che in migliaia affollarono l’Abbazia di Chiaravalle, a Milano, per le esequie di un artista che non faceva tv dal 1970 e si era ritirato dalle scene nel 2000. Evidentemente, però, Gaber era ben altro che un "cantautore". Già negli anni ’70 qualcuno lo definì "amico" del pubblico, con cui aveva voluto dialogare mettendosi in gioco nome, cognome e faccia per raccontarci la realtà: alla ricerca di un "noi" diverso, di un uomo migliore. Sarà per questo che dieci anni dopo Giorgio Gaber è ancora qui, come un classico contemporaneo? «È qui perché era un esempio assoluto di morale e ci ha gridato che l’essere umano ha un destino: evolversi». Così risponde Franco Battiato, che Gaber lo conobbe ben prima del "Signor G" e che al ricordo dell’amico dedica una pausa nelle prove del tour Apriti Sesamo in partenza da Bergamo il 19 gennaio verso l’Europa.Battiato, Gaber fu decisivo pure per la sua carriera…È vero. Nell’inverno del 1964 ero stato assunto nel cabaret milanese di Tinin e Velia Mantegazza, il Cab 64. Aprivo le serate cantando canzoni siciliane che fingevo barocche… Gaber una sera mi avvicinò invitandomi ad andarlo a trovare. Iniziò un’amicizia e a poco a poco mi incaricò di scrivere delle cose fino a produrmi La torre, il primo vero 45 giri.Poi lei visse la scelta di Gaber di passare al teatro: da che esigenze veniva quella sua sfida?Giorgio era libero. E voleva poter parlare di chiunque, poter anche attaccare chiunque. Fu un cambio di galassia, direi: ma attenzione, fu a teatro che divenne popolare. Dopo qualche anno, sì, ma prima aveva solo successo d’ascolto, non di vendite.Quanto fu decisivo Sandro Luporini, a suo avviso?Molto. Però guardi che Giorgio era incredibile sul palcoscenico. Energia, ironia, comicità, rigore… Aveva tutto, grazie anche alla gavetta in tv.E nel 1978 la richiamò come arrangiatore di "Polli di allevamento". Era un Gaber diverso?Era sicuro di quello che voleva dire, e infatti mi lasciò libertà totale sul "come". Solo per Quando è moda è moda, canzone violentissima, discutemmo: ma alla fine accettò il mio contrappunto di corni. Il rock si sarebbe sovrapposto alla sua denuncia.Che era sprone per pensare con la propria testa: e molti fischiarono. Come negli anni ’90 avrebbero detto che si era imbolsito… Forse era scomodo?Guardi, non abbiamo una critica eccellente. Molti si divertono a scrivere cose a prescindere da ciò che vedono. Io ricordo solo tripudi, per Gaber.Per che cosa dava fastidio? Il rigore etico, forse?Certo! Ci sono troppi servi del potere… E lui era severissimo, non rinunciava a denunciare quanto vedeva. Era fortemente etico nella vita e nell’arte.Ma tutti i suoi spettacoli aprivano alla speranza, anzi la "certezza" che si possano cambiare le cose. Dunque perché dicono ancora che fosse pessimista?Credo siano ulteriori tentativi di neutralizzarlo. Era realista, semmai. E i prodromi per il suo Nuovo Umanesimo si vedono, in giro. Io almeno li scorgo.Lei di Gaber ha riletto «La parola io» dall’ultimo disco, una denuncia di come l’egoismo domini, degeneri e distrugga ovunque. In politica, amore, spettacolo, giornalismo… Ecco, dieci anni dopo le parole di Gaber le reputa universali, o sconfortanti per il loro anticiparci come siamo ridotti oggi?L’ego è un intoppo forte, da sempre, per l’uomo. Però certo lui ha anticipato derive inimmaginabili: usando etica e coscienza, senza compromessi. E potrei dirle che dieci anni dopo le sue parole valgono ancora per entrambi i motivi. Perché ci mostrano come siamo ora e perché ha parlato dell’uomo in sé e per sé.
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