mercoledì 2 settembre 2015
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Ci voleva un anarchico-rivoluzionario, per mettere in piedi il disco a tema più coraggioso di sempre, politico ed etico in senso altissimo, laico eppure spirituale. Con al centro l’anarchia vera del ribellarsi alla banalità gretta del potere umano, in un “concept album”… su Dio. Insomma, ci voleva Fabrizio De André. Ci voleva Faber, per riscattare in musica il violento velleitarismo del Sessantotto italiano dedicando nel ’70, all’abbrivio degli anni di piombo, un disco intero a Qualcuno che nessuno avrebbe mai potuto immaginare nella musica d’autore, men che meno in quella “impegnata”: ovvero Gesù Cristo. Perché è il “rivoluzionario” Cristo, il “concept” dell’album La buona novella, lavorato da Fabrizio De André con Roberto Dané e Giampiero Reverberi. E anche se non è il Gesù della fede certa e canonica di Johnny Cash, ma quello semplificato dei Vangeli apocrifi, sempre Cristo è: anzi, proprio perché si parte da una lettura umana della sua figura, è un Cristo più avvicinabile all’urgenza di capire il senso dell’uomo tipica di De André sin dall’inizio. Perché non va dimenticato che De André già nei suoi primi tre Lp aveva cantato gli ultimi cui il Vangelo fa riferimento, usando pure simile pietas (Cantico dei drogati, Bocca di rosa, Via del Campo); si era riferito a Pietro e Giuda ne La ballata del Miché; aveva inciso persino Spiritual. Ovvero «Dio del cielo se mi vorrai amare / scendi dalle stelle e vienimi a cercare», ma anche «Dio del cielo io ti aspetterò / senza di te non so più dove andare». E poi c’era già nel suo canzoniere Si chiamava Gesù: che subito dal primo Lp del ’68 indicava una ricerca laica, ma inevitabilmente giunta a interrogarsi sul principale riferimento religioso dell’Occidente. Solo che Si chiamava Gesù era ancora un po’ provocatoria pur già affiancando a due certezze che De André ebbe sempre (Gesù era un uomo ma ucciderlo fu inumano come sempre è la violenza) l’evidente ricerca di una risposta “altra”. E questo interrogarsi sul senso del vivere e sul perché del male, che accompagnò Faber sino alla fine, è in fondo il nucleo di qualunque fede: percorso che non sempre trova la grazia del credere. Ma a parte ciò, è chiaro che La buona novella non fu comunque improvvisa conversione, né episodio fra parentesi: bensì ulteriore crescita di una ricerca che toccava una delle sue vette osando riflettere sull’Uomo che molti dicono Dio fattosi carne. Che scalpore, dunque, quando La buona novella rese evidente che dietro lo sghignazzo su preti e bigottismo c’era davvero, in De André, pietas; che effetto, sentir cantare da Faber una rivoluzione vera, ben distante da quella priva di etica e mirata a nuovi poteri dei vari capintesta del Sessantotto. De André, davvero anarchico e nel cuore rivoluzionario, nel suo onesto cercare aveva finito con incontrare, e cantare, Gesù: che choc, per tanti. Faber in realtà di tutte le reazioni alla sua opera rideva. «Ero solo un autore di canzoni che raccontava la storia di un uomo molto buono», disse al suo ottimo biografo Cesare G. Romana. «E poi c’è molto senso comune, nella vicenda che Gesù insegna». Ma attenzione: solo all’inizio l’artista, conscio di quante critiche si sarebbe tirate addosso in un’era di militanza ideologica non meno bigotta di certo clericalismo, aveva messo argutamente le mani avanti. E solo allora aveva scherzato un po’: «Ho scelto i Vangeli apocrifi per parlare di un uomo e non di Santi, non voglio far propaganda all’ufficio stampa di Gesù Cristo». Però De André sapeva benissimo che Radio Vaticana non gli aveva censurato Si chiamava Gesù come non censurò Dio è morto di Guccini: e anche se molti sottolinearono sin troppo quanto il titolo del concept del ’70 rimandasse non alla venuta di Cristo bensì a un credere nell’uomo, era pur sempre di Cristo che La buona novella parlava. In essa c’è un Laudate Dominum accanto al Laudate hominem; si parla di fratellanza con un impatto sulla società divisa in fazioni del ’70 non tanto diverso, rispetto a quando usando termini simili ne parlò Gesù agli uomini della chiesa del suo tempo ottenendo la condanna a morte; e nell’Lp Maria e Giuseppe sono donna e uomo, certo, ma anche icona spirituale del valore-maternità e simbolo filosofico della difficoltà di rapportarsi ai chiaroscuri della vita. Poi La buona novella sale di tono, rispetto all’ovvio. Affronta il calvario, osa il mistero del morire, alfine approda a quella mirabile rilettura laica dei dieci comandamenti che è Il testamento di Tito, ladrone crocifisso accanto a Gesù. Un brano tanto considerato da De André quale emblema del dover ridare senso e dignità all’uomo che egli lo canterà sempre, dal vivo, in tutta la carriera. Certo ne La buona novella c’è pure tutto il corollario politico dell’attacco al potere, ecclesiastico o temporale che sia: ma anche questo, a ben vedere, faceva parte della vita stessa di Cristo. Così che come ha scritto Romana, alla fine De André incise «il più laico degli atti di fede». E lo fece da poeta maturo che voleva cercare l’uomo, avvicinarsi alle sue periferie fragili, comprendere che senso avesse il dolore: a costo di cantare, per riuscirvi, persino qualcosa di apparentemente lontano dai pensieri del 1970, ovvero Cristo e la sua lezione d’amore. E per cogliere il senso vero de La buona novella, basta in fondo ricordare una chiosa, geniale, fatta all’opera da De André negli ultimi anni. «All’epoca mi considerarono anacronistico, vero… Eppure cosa cantavo? Un esempio umano da imitare, il principio etico decisivo “Ama il prossimo tuo come te stesso” e la più grande rivoluzione di sempre». Nel concept più imprevedibile e davvero rivoluzionario di tutti i tempi.
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